THE PLANETS DI GUSTAV HOLST

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Quasi per scherzo nelle mie notti fiorentine, tra un locale e un altro, tra un drink e un altro, tra inutili chiacchiere e altre inutili chiacchiere, perché diciamolo chiaro una volta per tutte, “la noche es una mentira”, o meglio è uno specchio, e quindi è specchio e megafono del niente umano e dell’ipocrisia che regnano sovrani durante il giorno. Ne è solo il rovescio della medaglia, l’altra parte in commedia. La notte esagera il giorno, lo droga e quindi anche nel vuoto umano, la notte registra il trionfo della vacuità umanoide.

Ma non critichiamo troppo, perché a volte capita di notte di andare da un amico che lavora come “kebabbaro” in un negozio di panini, un ragazzo colto e istruito, e per gioco decidiamo di uscire dal campo del nulla e ci mettiamo ad ascoltare musica classica mentre gli altri mangiano panini e parlano di donne, diciamo così.

Come per gioco Dan, questo caro ragazzo che non vedo da anni, perché è tornato a vivere a Praga, mi chiede di scrivere una plaquette sul poema sinfonico The  Planets di Gustav Holst.

Allora, era il 2011, raccolsi la sfida e nelle notti successive, mentre intorno a me la gente beveva, copulava e si drogava, cominciai a scrivere delle poesie seguendo l’incedere del Poema sinfonico del compositore svedese.

Mi viene da ridere nel rivedermi scrivere poesie in linguaggio aulico, mentre accanto a me contrattavano il prezzo della cocaina o della notte di sesso.

Eppure questo e successo e mi chiedo pensando a Lautréaumont, esiste forse un luogo migliore per scrivere poesia che un bar debosciato alle 6 di mattina?

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Isidore Ducasse, letterariamente conosciuto come Lautréamont

Primi dei testi da me scritti allora, vi pubblico alcuni testi riguardanti il Poema sinfonico di Gusta Holst:

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“La suite I pianeti (The Planets) fu e rimane ancora oggi l’opera più amata e ammirata di Holst. Fu concepita a partire dal 1914 sulla scia del grande interesse per l’astrologia e la teosofia che Holst aveva sviluppato a partire dal viaggio in Spagna e dalla conoscenza con C. Bax, e delle letture (soprattutto dell’opera dell’astrologo Alan Leo). Holst e la moglie risiedevano spesso nella casa di campagna di Thaxted, nell’Essex, immersi in un ambiente ricco di suggestioni del passato, a cominciare dall’architettura medievale e dal paesaggio.

È una serie di bozzetti musicali ispirati da ‘umori’ legati ai pianeti, piuttosto che qualcosa di concretamente collegato all’astrologia. Holst aveva comunque certamente tratto ispirazione dal libro The Art of Synthesis di Alan Leo, che è diviso in capitoli ognuno dei quali è dedicato ad un pianeta e ne descrive le caratteristiche della personalità e i valori ad esso associati, così che per esempio, nel libro di Leo

  • Marte – Indipendente, ambizioso, caparbio
  • Venere – Amore che rinasce, emotività
  • Mercurio – Il messaggero alato degli dei, pieno di risorse, eclettico
  • Giove – Portatore d’abbondanza e perseveranza.

Holst fu inoltre influenzato da un astrologo del XIX secolo chiamato Raphael, il cui libro verte sul ruolo che giocano i pianeti nei destini del mondo. L’opera venne completata in due fasi: dapprima Marte, Venere e Giove, quindi Saturno, Urano, Nettuno e Mercurio dopo una pausa dedicata ad altre composizioni. L’ultima nota fu scritta nel 1916. L’influenza di Stravinskij fu colta da un critico, che definì la suite “la Sagra della Primavera inglese”. È possibile scorgervi anche influenze di Debussy e Richard Strauss, oltre che dell’amico Vaughan Williams.

È inoltre interessante notare che The Planets è stato fonte d’ispirazione per varie colonne sonore cinematografiche. È noto che John Williams usò Marte, assieme ad altri brani di musica classica, come musica provvisoria non originale durante la lavorazione di Guerre stellari e in seguito ne citò palesemente alcuni temi nella sua colonna sonora originale definitiva. Si notano anche somiglianze tra la colonna sonora (di Alan Silvestri) di The Abyss e Nettuno, tra la colonna sonora (di Bernard Herrmann) di La donna che visse due volte e Viaggio al centro della Terra e Saturno, tra quella (opera di James Horner) di Titanic e Nettuno o Braveheart – Cuore impavido con “Giove” e infine tra quella de La Bibbia (1966) e – ancora una volta – Saturno.

La pattinatrice di livello mondiale giapponese Mao Asada, sceglie di utilizzare Jupiter, come musica di accompagnamento per le esibizioni da Galà che si svolgono al termine delle gare ISU per l’annata 2011 – 2012 nella versione rivista dallo stesso Holst nella quale, l’inciso centrale, fa da accompagnamento all’inno popolare Inglese di I vow to thee, my country.” (fonte wikipedia)

Questo è invece tratto dal sito http://www.gustavholst.info/, dedicato proprio al grande compositore svedese ed è in inglese:

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(1914-16) The Planets Op. 32

– Mars, the Bringer of War– Venus, the Bringer of Peace– Mercury, the Winged Messenger– Jupiter, the Bringer of Jollity– Saturn, the Bringer of Old Age– Uranus, the Magician– Neptune, the Mystic

This piece is published by Faber.

During the 1910’s, Holst was undoubtedly going through a period similar to a midlife crisis. His first large scale work, and opera called Sita failed to win a cash prize at a Ricordi composition competition and his other large works of the time, notably The Cloud Messenger and Beni Mora were premiered without great success. In March of 1913, Holst received an anonymous gift which enabled him to travel to Spain with Clifford Bax, the brother of the composer Arnold Bax (and later the librettist for Holst’s opera The Wandering Scholar). Clifford Bax was an astrologer, and he and Holst became good friends, with Bax introducing him to the concepts of astrology.

Perhaps due to this friendship, Holst began to rediscover his childhood intrigue with theosophy. He had a book in his library called, “The Art of Synthesis,” by Alan Leo. Leo was himself an astrologer and Theosophist who published various books on astrology, however if you look at “The Art of Synthesis,” each chapter is labeled with a heading, offering a precursor to how The Planets was constructed. Alan Leo divided his book into chapters based on each planet, and described the astrological characteristics of them. In fact, “Neptune, the Mystic,” is given the same title in both the book and the suite! Holst may have been introduced to Leo by George Mead, a Sanskrit scholar and a fellow member, along with Holst, of the Royal Asiatic Society. Mead and Leo were friends.

Holst called his piece “a series of mood pictures.” In actuality, this helps lead into other influences for this work. Before Holst started to compose The Planets, both Arnold Schoenberg and Igor Stravinsky made trips to England and caused quite a stir. Schoenberg came to England and conducted his Five Orchestral Pieces Op. 18. Holst must have gone to this concert and been impressed, for Holst labeled the preliminary sketches of The Planets “Seven Orchestral Pieces.” Around the same time, Stravinsky came to England and conducted his Le sacre du printemps. Holst must have noticed this unconventional way to use the orchestra, because in the first movement, “Mars,” the blatant dissonance and unconventional meter seems to be riddled with the influence of Stravinsky.

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Gustav Holst

Gustav Holst seemed to consider The Planets a progression of life. “Mars” perhaps serves as a rocky and tormenting beginning. In fact, some have called this movement the most devastaing piece of music ever written! “Venus” seems to provide an answer to “Mars,” it’s title as “the bringer of peace,” helps aid that claim. “Mercury” can be thought of as the messenger between our world and the other worlds. Perhaps “Jupiter” represents the “prime” of life, even with the overplayed central melody, which was later arranged to the words of “I vow to thee, my country.” “Saturn” can be viewed as indicative of Holst’s later mature style, and indeed it is recorded that Holst preferred this movement to all others in the suite. Through “Saturn” it can be said that old age is not always peaceful and happy. The movement may display the ongoing struggle for life against the odd supernatural forces. This notion mat be somewhat outlandish, but the music seems to lend credence to this. “Saturn” is followed by “Uranus, the Magician,” a quirky scherzo displaying a robust musical climax before the tranquility of the female choir in “Neptune” enchants the audience.

The piece displays that Holst was in touch with his musical contemporaries. There are obvious ideas borrowed from Schoenberg, Stravinsky, and Debussy (the quality of”Neptune” resembles earlier Debussy piano music.) Holst never wrote another piece like The Planets again. He hated its popularity. When people would ask for his autograph, he gave them a typed sheet of paper that stated that he didn’t give out autographs. The public seemed to demand of him more music like The Planets, and his later music seemed to disappoint them. In fact, after writing the piece, he swore off his belief in astrology, though until the end of his life he cast his friends horoscopes. How ironic that the piece that made his name famous throughout the world brought him the least joy in the end.

The Planets was first performed in a private concert in 1918 with Adrian Boult conducting as a gift from Henry Balfour Gardiner, who was also responsible for the premieres of Holst’s Two Eastern Pictures and The Cloud Messenger. The first complete performance of the piece was under Albert Coates in Queen’s Hall in 1920.”

E ora la mia piccola plaquette ispirata dal poema sinfonico di Gustav Holst:

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THE PLANETS

Mars, The Bringer of War

Non è nostra la mano ferma che unisce gli uomini,

Per questo appare ancor più cupo e profondo ogn'ora

Il baratro assurdo, che cattura le nostre inquietudini,

Aspergendole con dovizia in una palude d'aurora.

Sei il vento violento e funesto che soffia tra vimini

E distrugge ogni cosa che incontra come fuoco porpora.

Quali naufraghi affranti in un mare colmo di acredini,

Nella tempesta che infuria e spazza via, troviamo dell'ora

Le ragioni, di questo grave e feroce stridere di incudini

L'ultimo fine, inutile crederci ignari e fuori della malora

Che ci acceca, il veleno potente che nelle intercapedini

Si inietta, è figlio nostro e come devastante Mandragora

Ci assassina, speriamo almeno che in queste finitudini

Si avviluppi un'alba lontana che non scorgiamo ancora.


Venus, The Bringer of Peace

Spumeggiante candore che nasce all'orizzonte,

Portato in trono dal profumo dei fiori di zagara,

Sempre chiaro e placido il lago che di sua sponte

Trasporta a remote rive questa gioia mai amara.

Sei la bellezza soave e calma che penetra la mente

E la conduce al suono armonioso di un'antica lira.

I ricordi amari veloci si allontanano a ponente,

Quando giunge al focoso petto la tua carezza cara.

Quali timidi agnelli ci rechiamo al tuo erto monte

Per rendere omaggio alla speranza unica e tenera,

Che promette pace e quiete ai cuori spauriti di morte

E gravidi di insondabili abissi fecondi che in sì rara

Bellezza, cercano infine un rimedio che sia più forte

Del vago e continuo andirivieni di questa vita oscura.


Mercury, The Winged Messanger

Persino i salici ossequiosi e docili si spezzano

Al suadente e ondivago incedere del tuo passaggio,

Come semenza fertile che contadini curano,

Spandi i tuoi servigi senza paura dell'oltraggio.

Sei la piuma alata a cui molti umani affidano

Il silente sibilo che trattiene il vigore del messaggio,

Senza mai sopprimere il rapace ardire mondano,

Che vorrebbe togliere ai viventi del linguaggio

La scintilla, quella rete di parole che in troppi gettano

Illusi di trovare molte vittime all'azzardato pedaggio.

Un'enorme schiera capirebbe infine che tutto è vano

Senza l'affanno che fa onore al tuo lignaggio,

Che lo schiudersi di un maggior dialogo umano

Sia la ricompensa chiara al tuo infinito erraggio.


Jupiter, The Bringer of Jollity

Sontuosi e potenti ottoni renderanno al fine lode

All'infinito e mai domo desio di profonda letizia,

Che fa del tuo pugno forte il deciso e fermo custode

Delle umane sorti e l'arbitro che solo spande amicizia.

Sei la forza che trascende, tale fiume in piena le sponde,

I tuoi strali fendono gli spazi più ardui d'ogni astuzia.

Nulla mai potrebbero coloro che recano a te frode,

Solo polvere avrebbero a pegno di tale falsa arguzia.

Con il fasto di un sovrano che nessun male erode,

Irradi il tuo vigore gioioso senza requie e con solerzia.

Tale padre attento e premuroso mai farai come Erode,

Che per viltà ed egoismo fu capace di uccidere l'infanzia.

Confidiamo nel tuo saper tollerare queste parole scomode,

Come unico antidoto a questo nostro mare di nequizia.


Saturn, The Bringer of Old Age

Dopo i tempi concitati quanto appare fatuo

Il fuoco che consuma i giorni senza asperità.

La tua fiamma invece ci illumina in modo assiduo

Tale ad una lampada che fende ad arte l'oscurità.

Sei il soffio leggero che ci porta il tempo residuo

E che lo conduce sotto l'egida cara della dignità.

Quanto sciocco e volgare appare il modo ingenuo

In cui si credeva di travolgere il mondo di amenità!

La tua calma invece blocca la mano con fare strenuo

E la riporta negli spazi che antistanno l'eternità.

Ti accusino pure di portare un tempo non proficuo,

Lascerai parlare tutti con la cura che dà solo l'età,

Che ognuno usi a piacimento suo il tempo esiguo,

Tanto finiremo tutti in un universo privo di formalità.


Uranus, The Magician

La tela misteriosa che del mondo compone la trama,

Non sarebbe visibile allo sguardo avido d'apparenza.

Sono troppe le vie parallele degne di grande brama,

Per far pensare infine ad un mondo di sola scienza.

Sei la mano possente che all'ordine delle cose intima 

Di abbandonarsi d'improvviso al fragor di una danza

Che non prevede, per la mente che di paura tracima,

La facile soluzione di un cosmo fatto di sola essenza.

Peggiore è il dramma di coloro che cercano certa fama,

Senza scorgere quante ombre danzano in lontananza.

Non sanno di esser tutti vittime di un antico anatema,

Che non permette luce, ma sola tenebrosa assenza,

A chi crede di capire tutto con la mente che intrama,

Mentre tutto si svolge nel luogo di cui sei tu coscienza.


Neptune, The Mystic

Fitto è ancora il mistero che divide da sempre gli umani

In color che navigano a vista e quelli che si perdono a largo,

In cerca di remote rive a cui far approdare intenti vani,

Mentre gli altri si accontentano di calma e di imbelle letargo.

Sei tu la scala che innalza lo sguardo verso mondo inumani

Per far scorgere quanto sia immenso dell'uomo il cargo.

Certo che in pochi ti seguiranno per le impervie vie come cani,

Senza mai cercare addietro, senza mai sentirsi a ramengo.

Meglio è di certo restare seduti e guardare come tanti nani

Di Corte, coloro che si spendono in ricerche e salgono su Argo,

Non sapendo affatto cosa può riservare loro l'oscuro domani,

Se la vetta che promette il cielo o la caduta che riporta al giogo.

Ma se un barlume di giustizia e rettitudine v'è nei fatti umani

Sia per coloro che in fede ti seguono e non ti sentono profugo.

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PARIGI vs CASTELFRANCO DI SOTTO

Pubblico la fine del romanzo “Qualcosa era successo a Sant’Ambrogio”. Nel romanzo assume la forma di una specie di appendice, ma qui invece vuole assumere il senso di un’eterna dialettica tra le ragioni del ricordo che ti spingono a far rivivere ciò che è già stato e il desiderio di vivere e scoprire il diverso, quello che si potrebbe definire anche il già non ancora ricordo.

 

Si tratta di una dialettica di persone, di immagini, di singole emozioni, ma si tratta anche di una dialettica di luoghi, spesso apparentemente improponibili, eppure così forte da scardinare ogni razionale punto di vista preconcetto.

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Questa non è un’appendice, ma nemmeno un semplice gioco di parole. Diciamo piuttosto che si tratta di un atto testimoniale ad uso e consumo interno. Una specie di bussola per guidarmi nel labirinto impenetrabile del mio deserto.

Se i lettori vi troveranno qualche spunto utile per le loro esistenze, questo aggiungerà piacere ma non sostanza alla mie argomentazioni.

Nell’estate del 2011, dopo quasi due anni di assenza, tornavo a vivere a Firenze. Non era una scelta diretta e voluta entusiasticamente. Era solo il migliore dei compromessi possibili per la mia esistenza di quel momento.

Tornato da Parigi nei primi mesi del 2011, avevo provato a vivere nel mio piccolo paese d’origine, Castelfranco di Sotto.

Era una scelta consapevole, rispondeva al desiderio di affrontare alla radice il mio rapporto con una comunità che troppo facilmente avevo pensato di dimenticare e rimuovere fuggendo.

Nella capitale francese, mentre camminavo in Rue Saint Honoré o per il Marais, sentivo che qualcosa di ben più importante era successo altrove.

Ho molto pensato su quello che mi stava accadendo. Non riuscivo a capire come potessi essere ossessionato da scene e da momenti vissuti in un paesino che in fondo odiavo, mentre mi trovavo nella città che era stata la padrona incontrastata dei miei sogni letterari.

Mi faceva orrore sentirmi una specie di eterno insoddisfatto, che vagava nel pianeta, desiderando paradisi perduti.

L’unica risposta che ho saputo darmi, per spiegare quei giorni di smarrimento, è stata che a Parigi ho detto per sempre addio alla mia gioventù.

Quella cesura esistenziale, vissuta in una città dura ed aspra, le mille peripezie di ordine umano che avevo vissuto in quei mesi, mi avevano catapultato in una nuova epoca.

La gioventù degli anni fiorentini, delle serate universitarie, appartenevano ad un libro che si chiudeva definitivamente.

Forse per questo, affranto dal mondo nuovo che si apriva inquietante all’orizzonte, mi sono appellato ai ricordi d’infanzia, come ad un porto sicuro in cui rifugiarmi. Ora che non ero più giovane, sentivo il desiderio profondo di tornare bambino.

Nella rottura che stavo vivendo, rivedevo chiaramente l’antica rottura di un tempo, nel quale l’infanzia era stata soppiantata dalla gioventù incipiente.

Come sempre mi accadeva, l’unica soluzione a cui potevo ricorrere era la scrittura. Passando intere giornate al caffè di Rue Auber, vicino l’Opéra, avevo cominciato a scrivere dei racconti incentrati su Castelfranco, sul palcoscenico naturale di quell’antica rottura.

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Scriverne mi aveva fatto vedere il mio paese con una certa tenerezza. In maniera carsica, il desiderio di tornarci a vivere, aveva preso il sopravvento.

Era una scelta sbagliata, credo, come tante altre scelte sbagliate che avevo fatto nella vita.

Le porte, certe porte, si erano chiuse in quel tempo lontano e non si potevano riaprire a capriccio.

Tornando a vivere a Firenze, vivevo dunque un duplice senso di sconfitta: quello di tornare in una città che speravo aver lasciato per sempre e quello di aver fallito nel mio rientro a Castelfranco.

Cercare facili nessi è sempre azzardato, ma dalla prima sera in cui vi rimettevo piede, un’altra vita fiorentina iniziava. Io che ero sempre uscito poco e che non sapevo nemmeno dell’esistenza di certi locali, mi trovavo ora a fare bisboccia, cercando in tutti i modi di arrivare all’alba, passando da un locale all’altro.

Stavo rapidamente diventando la persona che in molti oggi conoscono. Il Mario che passa di locale in locale, che beve gin tonic, che balla come un pazzo e che, quando può, cerca anche di divertirsi.

Le persone che avevano attraversato la mia precedente esistenza sono sposate, partite, dimenticate. Potevo e posso recitare una nuova parte, senza che nessuno mi chieda mai conto di quello che ero prima.

In quelle sere di inizio estate 2011, quando avevo bevuto troppo al Lochness, mi capitava di andare a prendere un kebab, nel locale accanto. Era lo stesso locale in cui avrei preso il burrito, la sera in cui Oliviero conosceva la sua Lolita Martina.

A lavorarci c’era Dan, un ragazzo moravo dal volto angelico, con il quale avevo un buonissimo rapporto. Era un ragazzo colto, che amava la cultura italiana e che che conosceva perfettamente il francese. Con lui parlavo di Holan, di Seifert, di Neruda, di Čapek, di Hrabal e di molti altri autori.

Dan mi chiamava don Mario, mi diceva che ero culturalmente siciliano, anche se avevo vissuto sempre altrove, per lui ero e rimanevo siciliano di spirito.

Una sera, mentre parlavamo amabilmente tra un kebab e l’altro, Dan era andato un attimo al televisore, per cercare di sistemare il canale musicale che si era sconnesso.

Quasi per gioco, senza molta convinzione, gli avevo chiesto di sintonizzare su un canale che mettesse solo della musica classica. Non era certo il tipo di musica che uno si aspetta di trovare, entrando da un “kebabbaro”, ma si sa, quando sono in giro, certe strane cose di quel tipo possono anche a cadere. Dan aveva accettato di farlo con piacere.

Dopo un concerto di Telemann, il canale aveva dato un’opera, che avevo ascoltato molto negli della mia prima gioventù. Era The Planets il poema sinfonico di Gustav Holst. Dan non la conosceva e me ne aveva chiesto qualche informazione, essendo anche lui rapito dalla bellezza timbrica dell’opera.

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Parlando di musica, parlando di filosofia e di teosofia, avevo stuzzicato la dialettica di Dan, All’improvviso, di punto in bianco, egli mi aveva proposto di scrivere una piccola silloge poetica seguendo le sezioni del poema sinfonico.

Quella notte stessa e nelle notti successive, andando al Teatrino, un locale aperto fino a mattina, in cui andavano pippomani, prostitute, personaggi variopinti e baristi in cerca di un ultimo drink, avevo cominciato a scrivere.

Come allora, avevo scritto quella piccola silloge sotto la suggestione di Dan, oggi mi trovo a scrivere questo piccolo e modesto libro, per richiesta e sotto lo stimolo del mio decennale amico Oliviero.

Sono stati questi due amici, che mi sono stati accanto in tempi diversi, ma che hanno parlato veramente con me, a chiedermi di scrivere, sapendo che quello era il solo modo per salvarmi.

Li ringrazio per questo, sapendo bene che entrambe le opere non saranno certo all’altezza di tali immeritate aspettative.

Non è dunque per sedurre o molestare il distratto mondo delle lettere che ho scritto queste due opere, ma per rendere omaggio alla comunanza letteraria che, talvolta, può rendere l’amicizia veramente profonda e capace di sfidare il tempo.

Se un auspicio posso avere, è solo quello che la scrittura di questo romanzo rappresenti “simbolicamente” la fine di questa mia traversata nel deserto, cominciata allora con la scritture di quelle poesie.

In questo tempo, che avanza angosciosamente verso il baratro, solo un fruscìo d’ali d’angelo mi potrà salvare.”

Marco Incardona

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