“DIO NON SI CURA DEI CASI PERSI”

Alcune pagine tratte dal mio romanzo “Qualcosa è successo a Sant’Ambrogio”, pubblicato nel 2015 grazie all’aiuto di un amico Olivier N., che nel frattempo ha deciso di non essere più tale.

Il libro era concepito in movimenti, come una sinfonia, e articolava, partendo dal refrain temporale del tempo passato dalla partenza del mio amico francese per Pau, un excursus fatto di finestre temporali, di flashback, non solo la storia di un’amicizia antica, ma anche la traiettoria del mio disagio esistenziale.

Sotto titolo di uno dei movimenti del libro era “Dio non si cura dei casi persi”. Vi ripropongo qua le pagine iniziali del capitolo.

 

Buona lettura, almeno spero.

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“Oliviero è ormai partito da più di una settimana e tutto sembra essere tornato nella norma in questa “cittadina” che “la ci ha tant’anni eppure la un invecchia mai”1.

Sono i giorni di Pitti, i giorni di un nuovo tipo di carnevale autorizzato. Spero che a nessuno tocchi in sorte di dover star gomito a gomito con questa serie innumerevole di manichini impagliacciati, i quali pensano davvero che l’apparenza dica qualcosa della persona.

Continuo a sperare che non sia così, perché altrimenti, della loro carnevalata di cattivo gusto, rimarrebbe davvero poco da salvare. Ma più li vedo sfilare con i loro pantaloni alla zuava, short impossibili, giacche pisello, salmone e chi più ne ha più ne metta, e sempre di più mi convinco che un progetto di civiltà stia per finire.

Sono tronfi, ricolmi di spacconeria, pensano davvero di agire per una giusta causa, questi redentori del look un tanto al chilo.

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Fortunato Oliviero che si sta perdendo questo squallido spettacolo, in scena da mattina a sera per le strade di Firenze.

So bene che lui non la penserebbe allo stesso modo. “All’inferno borghese” tutto è preferibile; qui saprebbe bene come liberarsi di tanto squallore insensato. Una miagolata, una tubata alla piccione parigino, ed ecco che i pinguini di Pitti, voltandosi, si svelerebbero immediatamente per quello che sono: dei piccoli borghesi dalla mentalità ristretta e calcolatrice.

Ieri sera, al colmo della mia sopportazione, mentre i pinguini pagliacceschi cominciavano a trasformarsi in mostri, nella mia mente annebbiata, sono venuti Simone ed Alice a salvarmi.

Quando li ho visti spuntare in albergo, ho fatto un sospiro di sollievo e mi son detto che ormai il peggio era passato.

Una bella coppia davvero, e pensare che sono stato io farli conoscere. Mi meraviglio a volte di questo dono di far succedere agli altri quello che poi rifuggo per me, e che, se non lo rifuggo, finisco per trasformarlo ineluttabilmente in una Caporetto drammatica.

Insieme siamo andati all’Off the Hook dei miei amici Giulio e Francesco. L’ambiente era infestato di americani: un bel duetto con i pinguini di Pitti, non c’è che dire.

Ma non bisogna fare gli ipocriti, Firenze è ormai questo da lungo tempo. Prendere o lasciare. Non ci sono tanti mezzi termini.

Ho da tanto tempo abbandonato le ipocrisie, e mi accontento di un decoro fatto di mirabili palazzi rinascimentali, di viuzze suggestive, di fantasmi dei grandi geni del passato che hanno fatto la storia di questa città.

Eccolo servito il mio esilio, ma un esilio dorato, tra monumenti bellissimi e memorie incredibili.

Dopo la serata all’Off the Hook, con Giulio e Francesco siamo andati al Dolce Zucchero, una vera cloaca massima della notte fiorentina, divenuto progressivamente una specie di after per i nottambuli incalliti come me.

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Di solito rimango in disparte, bevo il mio cocktail, cercando di evitare in tutti i modi il contatto con gli altri. Mi piace osservarli, mi piace osservare le dinamiche di comportamento, ma non nutro alcuna intenzione di farne parte.

Normalmente rimango in piedi, appoggiato da qualche parte se posso, o il più delle volte in perfetta solitudine. A volte ballo, ma di rado, perché quella musica mi fa letteralmente schifo, e nemmeno l’alcol riesce a vincere gli interdetti, che i miei gusti musicali mi impongono.

Non esco certo la sera, aspettandomi che, in un qualche locale, mi suonino una sonata per liuto di Leopold Weiss. Le stronzate commerciali però, almeno quelle, vorrei, finché posso, evitarle.

Al Dolce Zucchero però, non posso farlo, quindi finisco inevitabilmente per osservare gli altri, senza ballo, senza smemoramento. In quella cloaca mi trasformo in una specie di sociologo della notte con drink alla mano.

Ieri però, stranamente, mi sono seduto. In men che non si dica una ragazza, una filippina, si è girata e si è presa il libro che avevo messo sul tavolo, per farsi aria. Avevo dato il mio assenso e sapevo che quello che volevo evitare si stava riproducendo. A volte, quando sono in situazioni del genere, prendo la situazione in mano, trasformandomi ad arte in fesso gentile. Offro da bere, senza che mi venga richiesto, per mera generosità.

So bene che le ragazze non amano i gentlemen e per questo spiattello loro in faccia la gentilezza. Che i nodi vengano subito al pettine, che mi prendano per un fesso e che si allontanino offese per essere state prese o per donne facili, o per mere scroccone di drinks.

Poi ci sono le prostitute e compagnia varia. Ovviamente quelle non aspettano altro che un allocco che offra loro da bere. Da quello valutano se si tratta di un potenziale cliente. In quei casi l’unico sistema è quello dello squadernamento della mia povertà. Non sono un allocco da spennare, abbastanza fesso per offrire un drink, ma non abbastanza per andare al letto, spendendo soldi che non ho.

Al Dolce Zucchero la sociologia è un’arte interessante, proprio perché tutti agiscono senza curarsi che qualcuno li osservi. Il contrario della vita quotidiana, dove tutti calcolano la minima mossa, sentendosi continuamente sotto assedio.

marco

Mentre vedevo il libro di Schelling, povero Schelling, ridotto a ventaglio per ragazze accaldate, ho capito che sarei stato per un po’ parte della commedia.

La filippina, di cui non so nemmeno il nome, era di natura diversa di quelle delle ragazze che ho appena finito di annoverare. C’era in lei una vera ninfomania, un vero ardore sessuale, che chiedesse soldi o fosse una scroccona di drink.

Nemmeno il tempo di dire due parole, e le sue mani erano già tra le mie gambe. Poi con la scusa di bere un po’ del mio gin tonic, mi aveva baciato con grande capacità. Mi tocca ammetterlo.

C’era del fuoco e della passione nei suoi comportamenti, dovevo sfuggire a quella tentazione, pensavo. Le ho chiesto se voleva bere un cocktail, lei voleva un Negroni, benissimo ci andava giù peso, e sono andato verso il bancone, lasciandola seduta.

Aveva il mio libro, quindi non potevo andare via, come avevo fatto altre volte, mi toccava offrire il drink e basta. Vedendo che le cose andavano per le lunghe, lei si è poi avvicinata a me, per marcare la presenza.

Ritornati sui divanetti, la situazione era presto degenerata. Le mani erano finite dove non dovevano finire ed io non sapevo come uscire dalla situazione.

Lei alla fine mi ha chiesto di accompagnarla in bagno. Non potevo esimermi, ma allo stesso tempo non avevo voglia di andare. Confesso che, spesso e volentieri, sono fregato più dalla mia educazione e gentilezza, che dalle mie reali intenzioni.

Giunti ai bagni, c’era una fila pazzesca, quindi ho detto alla tipa che l’avrei aspettata fuori. Come salvarmi da quella specie di ninfomane, ma simpatica e gentile? Il tempo non mi avrebbe aiutato, più sarei rimasto con lei e più la fine della serata sarebbe stata scontata.

Poi è arrivato Claus, o Thomas, o Mattias o fate voi, tanto non ne conosco il nome. Un tedesco che aveva vissuto con la filippina in un qualche appartamento. I due si sono messi a discutere, proprio fuori dal bagno. Storie di soldi mai dati, di caparre mai versate, di contratti mai scritti, le solite cose di questo mondo capitalista.

Per un istante, la filippina ha provato a salvare il salvabile, riportandomi giù ai divanetti, dove c’era il mio povero libro di Schelling, che nessuno si era evidentemente manco per sogno.

Ero rientrato in possesso del libro, questo era quello che più contava e la tipa accanto a me voleva già rimpossessarsene per farne ventaglio, quando il buon giovane Werther postmoderno è sceso anche lui verso il bar, che si trova in una specie di cava sotterranea, per riattaccare la discussione.

Non avrei mai potuto immaginare che un tedesco mi potesse salvare un giorno da una situazione. La strada era aperta, con un cenno di saluto mi sono alzato e sono uscito velocemente dal locale.

Grazie Werther, Claus, Thomas o come ti chiami, grazie di avermi salvato, fatti le tue esperienze e divertiti, forse non hai nemmeno ventidue anni.

Io non sono là per vivere una vita falsa che non mi interessa, sono là per osservare e per osservarmi. Arrivederci cloaca massima della notte fiorentina, ci vedremo presto e, come sempre, ne accadranno delle belle, c’è da esserne certi.”

1Parole tratte dalla celebre canzone di Odoardo Spadaro, “La porti un bacione a Firenze”.

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