COOP CONNECTION

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Recensire o semplicemente parlare di un libro come Coop connection di Antonio Amorosi, edito da Chiareletere nel 2016, non è un compito facile.

Questo innanzitutto perché si tratta di un libro concepito appositamente per andare controcorrente, per scioccare les idées reçues del pubblico, abituato, da una stratificazione decennale, ad orientarsi secondo coordinate prestabilite o ormai date per acquisite una volta per tutte.

In fondo si tratta di coordinate anche semplici da recepire, le più semplici di tutte. Da una parte vi è il Bene e dall’altro il Male. Dualismo che, nella complicata storia italiana, fatta di clan, di fazioni, di piccole patrie, si è tradotto e si traduce molto più banalmente e semplicemente in da una parte  i Nostri e dall’altra gli Altri.

Forse, anche per questo, per comprendere e dispiegare un libro come quello di Amorosi è necessario fare appello al pensiero filosofico, proprio a quello che, a partire dall’Illuminismo, si è prefissato appunto di combattere contro la religione immobile des idées reçues.

In tutta la sua opera, e immolandosi quasi fisicamente e spiritualmente, Friedrich Nietzsche ha provato a smascherare “la menzogna bimillenaria”, come la chiamava lui. Ma non era tanto alla religione in quanto tale che egli affondava i suoi strali potentissimi, quanto piuttosto a quella morale sorta dalle religione per catalogare il mondo secondo categorie predefinite. Una morale che si voleva naturale, data una volta per tutte, e che invece il filosofo tedesco ci ha insegnato a comprendere secondo la sua genesi e sviluppo storico, secondo la sua genealogia, come recita il titolo di una delle sue opere più importanti: “La genealogia della morale”.

Ma cosa c’entra in fondo Nietzsche con un libro che si occupa di Coop?

C’entra eccome, perché l’antico vizio del dualismo religioso tra bene e male è duro a morire e fa sì che sul male si puntino tutti gli strali della critica, mentre sul bene si adagi lo sguardo benevolo di chi accondiscende a priori.

E si sa, almeno sulla carta, tra le cose sulla carta ideale del mondo in cui viviamo, un mondo in cui la finanza e il denaro la fanno da padroni, è senza dubbio il sistema cooperativo.

Ideale bellissimo, troppo bello per essere vero, quello del mutualismo, quello dei piccoli che si associano per emanciparsi dal sistema capitalista dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Cosa poter obbiettare contro un ideale così bello e progressista? Nulla

Invece Antonio Amorosi prova proprio, come ci ha insegnato Nietzsche, a scardinare il giudizio aprioristico su un fenomeno, quello delle cooperative, che, come tutti i fenomeni storici, andrebbe invece analizzato nella sua storia, ovvero nella sua concreta traiettoria.

Ad essere scardinato da Amorosi, è innanzitutto il racconto agiografico che le cooperative, e coloro che le hanno appoggiate politicamente, hanno fatto del loro compito sulla carta, per mascherare il loro operato effettivo.

Ma ancora una volta è un filosofo, Jacques Derrida, citato questa volta da Carmelo Bene, a darci le coordinate per comprendere il libro di Amorosi. “l’informazione informa i fatti e mai sui fatti”. Il giornalismo ipostatizzando i fatti, e descrivendoli non secondo la loro genesi interpretativa, ma secondo il loro darsi, così come sono, una volta per tutte, aiuta a far risorgere la morale religiosa data una volta per tutte. I fatti presentati come neutri, danno il là al risorgere della morale basata su categorie inamovibili e non modificabili.

Eccoli i fatti, quelli che ci vorrebbero far archiviare una volta per tutte il fenomeno delle cooperative come un in sé positivo e idealistico:

“La cooperativa è un’impresa – in forma di società – nella quale il fine e il fondamento dell’agire economico è il soddisfacimento dei bisogni della persona (il socio): alla base della cooperativa c’è dunque la comune volontà dei suoi membri di tutelare i propri interessi di consumatori, lavoratori, agricoltori, operatori culturali, ecc.

L’elemento distintivo e unificante di ogni tipo di cooperativa – a prescindere da ogni altra distinzione settoriale – si riassume nel fatto che, mentre il fine ultimo sia delle persone che delle società di capitali è la realizzazione del lucro si concretizza nel riparto degli utili patrimoniali, le cooperative hanno invece uno scopo mutualistico, che consiste – a seconda del tipo di cooperativa – nell’assicurare ai soci il lavoro, o beni di consumo, o servizi, a condizioni migliori di quelle che otterrebbero dal libero .mercato”(fonte Wikipedia)

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Queste sono le cose che tutti abbiamo in mente quando pensiamo alle cooperative. Alla mente ci vengono le idilliache pubblicità che ci rammentano che ci sono le “persone oltre le cose” (pubblicità coop), oppure che mentre noi dormiamo c’è qualcuno che pensa alla qualità di quello che noi mangeremo l’indomani. (pubblicità conad)

Tutto vero forse. Eppure Antonio Amorosi ci invita perentoriamente ad andare oltre, più in profondità. Lui che di cooperative e di sistema emiliano se ne intende, visto che a soli 34 anni era divenuto assessore alle politiche abitative del Comune di Bologna sotto la giunta Cofferati, e ha avuto modo, sedendo su una poltrona che scotta, quella che assegna le case popolari, di capire quale sordido sistema clientelare si annidasse dietro le assegnazione degli alloggi e non solo, dietro tutto quello che si muoveva a Bologna. Dopo un anno e mezzo Amorosi si dimise dal suo incarico, ma non smise certo di indagare e di scardinare les idées reçues che voleva catalogare il sistema emiliano basato sulle cooperative come indiscutibilmente positivo.

Antonio Amorosi ci racconta dunque in questo suo sconvolgente libro un’altra storia, una storia che andrebbe non solo letta, perché va detto, si tratta di un viaggio che  si lascia leggere tutto d’un fiato, ma studiata e approfondita non solo per la puntualità con cui i dati sono descritti e documentati, ma per capire la nostra storia recente e più specificatamente, perché sia stata proprio la sinistra ex comunista a mettere in campo il più ampio programma di smantellamento dello stato sociale che l’Europa Occidentale abbia conosciuto dopo la Thatcher.

“Se riesci a documentare il mondo coop vinci il Pulitzer” mi ha confidato ridendo l’ex presidente della municipalizzata HERA, Stefano Aldovrandi. Il modello coop a cui pensa è totalmente sconosciuto al pubblico italiano. Gli attori coinvolti non ne rivelano i segreti. Ma qui non si tratta di vincere o di perdere. Si tratta di raccontare una compagine inaccessibile fatta di intere famiglie, che vivono o muoiono a seconda dell’affinità a una struttura ramificata. Di uomini che hanno privilegi solo perché appartengono a sigle che si riproducono sempre uguali per generazioni. O di persone che non hanno diritto ad accedervi o a lavorare in certi territori, e che rimangono solo passivi consumatori. Le cooperative sono un impero economico, una corporation e al tempo stesso un’alternativa alla competizione individuale. La Legacoop, le cosiddette coop rosse di origine comunista e socialdemocratica, è un colosso di quindicimila cooperative, circa 79 miliardi di fatturato, superiore al 4% del Pil italiano, 8,9 milioni di soci e 493 mila dipendenti. La megaorganizzazione nazionale, nata nel secondo dopoguerra in Emilia-Romagna è il cuore delle coop, con ramificazioni in ogni angolo d’Italia. E’ la dorsale economica delle cosiddette “regioni rosse”, Emilia-Romagna, Toscana Umbria e parte  delle Marche. Lì la sinistra vince con facilità dal dopoguerra tutte le elezioni, fino a giungere al PD, e le coop ne sono il braccio finanziario. La finanza ha causato la crisi economica globale del 2008-2014. Ma mentre l’economia è collassata, le coop sono cresciute e si sono alleate tra loro sotto l’egemonia di Legacoop. Un mondo diviso ma che nel 2011 il presidente di Legacoop Giuliano Poletti (attuale Ministro del Lavoro nel Governo di Matteo Renzi) ha unito facendo cadere le ultime barriere ideologiche. Come nel 2007 si sono fusi i Partiti DS e Margherita, ex comunisti e cattolici, dando vita al Partito Democratico, così coop rosse e coop bianche si sono unite. E’ nata in questo modo l’Alleanza delle cooperative italiane tra Legacoop, Confcooperative, le coop bianche di matrice cattolica e l’Agci, di origine repubblicana e socialista. Confocooperative ha ventunomila imprese, 65 miliardi e 100 milioni di euro di fatturato  e 543.000 occupati. L’Agci ha invece settemila coop, 7 miliardi di fatturato e settantunomila occupati. L’Allenaza coop conta dodici milioni di soci e un milione e centomila persone occupate. Secondo Legacoop tutte le sigle si fonderanno entro il 2016. Attualmente le imprese associate nel’Alleanza sono circa quarantatremila per 151 miliardi e 100 milioni di euro di fatturato complessivo. Una cifra immensa già nel 2012, cresciuta ulteriormente negli anni successivi. Superiore all’8% del Pil italiano e che sovrasta il Prodotto interno lordo di molti Stati Europei, come l’Ungheria, ed è simile a quello di Bulgaria, Croazia e Slovenia messe assieme.”

Basterebbe questa pagina per capire che la storia di cui ci parla Amorosi è una storia ben diversa da quella raccontataci dalla Letizzetto  nelle pubblicità televisive.

Una storia che ci parla di un potere immenso e tentacolare, fatto di circolarità di cariche, in cui oggi si è assessori in un comune, domani presidenti di un consorzio o di una partecipata comunale, e dopodomani presidenti di provincia o consiglieri regionali. Un sistema dove controllori e controllati sono la stessa famiglia, sono la stessa cosa.

Una storia che ci parla di un sistema di agevolazioni fiscali molto simile a quello di cui godono le grandi Multinazionali in virtù dei trattati Europei di libero scambio e dei parametri del WTO in vigore dal 1994.

Una storia che con gli ideali delle origini e che con l’emancipazione della classe operaia e contadina ha ormai ben poco a che vedere.

“Coop connection” è un viaggio a volo d’aquila su questo mondo lasciato sommerso per crescere come l’ennesima piovra della storia italiana e prendersi il potere. E’ un viaggio acuto e penetrante, volutamente non rinchiuso nella forma saggio, né nei canoni della classica inchiesta giornalistica. Un libro che si lascia a tratti leggere come un romanzo, ma che parla di fatti dei quali Antonio Amorosi si è documentato in profondità e che ci descrive con assoluta incisività.

Leggendo le pagine del libro, è impossibile non ripensare alla recente storia italiana, non pensare a Mani Pulite, alla corruzione come era ieri, le mazzette, e come è oggi circolarità di cariche e fondazioni, ripensare a venti lunghi anni di scontro tra bande, tra due blocchi solo apparentemente contrapposti.

Ci ricordiamo tutti Violante che confessava alla Camera come il Centro sinistra avesse non solo salvato le reti televisive di Silvio Berlusconi, ma di come le avesse addirittura fatte crescere e sviluppare.

Ma forse ci ricordiamo molto meno di quante volte da Vespa, o in altri salotti televisivi, Berlusconi abbia detto di non aver mai toccato il sistema di privilegi fiscali delle cooperative rosse e non.

Due fatti entrambi veri che, se sommati, gettano una luce diversa sulla nostra recente storia, ma che allo stesso tempo ci consentono forse di comprenderla appieno e in profondità.

Marco Incardona

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L’ITALIA NON È PIÙ UN PAESE DI POETI: IL CASO IPPOLITO NIEVO EROE O MARTIRE DEL RISORGIMENTO?

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Tra i molti luoghi comuni che vengono associati al Belpaese, vi è quello, anch’esso duro a morire, di essere un Paese di santi, poeti e navigatori. Forse questa iperbolica affermazione sarà stata vera per l’Italia “espressione geografica”, per dirla alla Metternich, ma certamente non per l’Italia Unita uscita dalla vicende Risorgimentali. Per i poeti poi, la sorte nell’Italia “Piemontese” è stata, spesso, addirittura drammatica.

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Non occorre nemmeno fare un grande sforzo per capire quanta poca considerazione abbia al giorno d’oggi la cultura nella nostra società. Ma non deve sorprendere, perché la traiettoria è di lunga durata e comincia con il nostro “Risorgimento”. Svanita la sbornia degli “intellettuali” alla Carducci, utili per creare il mito dell’Italia Unita per destino e fato divino, la cultura e la letteratura hanno dovuto sempre lottare strenuamente per trovare uno spazio di agibilità nella vita collettiva italiana.

Paese largamente trimalcionesco e pieno di baùscia boriosi e pieni di sé, che nemmeno il migliore Alberto Sordi avrebbe saputo interpretare, l’Italia in verità non ha mai saputo e non sa che farsene dei suoi scrittori e dei suoi poeti.

Questi ultimi si agitano, sperando di trovare nel mercato editoriale, quello spazio che la società nega loro.

E sia, alcuni potranno anche avere successo, sicuramente però non avranno mai alcun ruolo effettivo all’interno della società italiana.

In fondo poi, la marginalità deve anche essere presa come una sorte sicuramente malinconica, ma certamente almeno indolore. Perché a voler esagerare si finisce anche per fare una brutta fine. Un caso su tutti. Pier Paolo Pasolini.

Chi può dimenticare le accorate parole di Moravia durante il suo funerale? A decenni dalla sua tragica morte, nessuno sembra voler comprendere fino in fondo il mistero della sua fine e soprattutto comprenderne il senso metaforico. Pasolini continua a parlarci non solo con la sua arte ed il suo pensiero, ma anche con il lacerante lato oscuro del suo sacrificio.

In un Paese che sembra essere costellato di stragi negate, di morti insabbiati, di cospirazioni mai sgominate, la morte di Pasolini appare un emblema, il simbolo di un’Italia che sembra portare in sé, il veleno generato da un peccato antico, quello di essere nata nel sotterfugio e nel sangue. Del resto non c’è da stupirsi, un Paese che non riesce a raccontarsi “lucidamente” la storia della sua genesi, non potrà mai affrontare fino in fondo i nodi ed i misteri che si affacciano all’orizzonte. Nella debolezza e nell’oscurantismo con cui affronta certe spinose e irrisolte questioni, l’Italia palesa tutta la sua falsa coscienza di Nazione e di comunità coesa.

Forse però non tutti sanno che, prima di Pasolini, proprio nel momento delle nascita dello Stato Italiano, nel 1861, un altro scrittore perse la vita in nome dei misteri e delle trame infami della storia peninsulare: Ippolito Nievo.

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Il suo nome è noto a tutti. Patriota tra i patrioti, il suo libro più importante, Le confessioni di un italiano, pubblicato postumo nel 1867, fa parte di quelle letture obbligatorie, e anche per questo spesso odiate, che la scuola pubblica riserva ai suoi studenti. Immortale la figura della Pisana nel castello di Portogruaro. Un libro pieno di ideali patriottici, di grande ardore e anche di cocenti delusioni. La testimonianza sincera di un democratico che aveva creduto davvero nell’Unità d’Italia, come compimento di un destino ineluttabile.

Ecco l’incipit del romanzo:

Io nacqui Veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista San Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare qualche utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati.”

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Basterebbe l’incipit del romanzo per capire quale servizio il grande scrittore abbia portato alla gloriosa causa dell’Unità Italiana. Un servizio che non smette di avere una funzione pedagogica, purtroppo spesso tra uno sbadiglio e l’altro, per gli studenti che, pensando agli amoretti adolescenziali, assimilano passivamente la storia dell’ineluttabile avanzata verso l’Unificazione. Morale facile che tutti conosciamo: non poteva che andare così e così è stato.

Eppure lo Stato Italiano, tanto premuroso nell’inserire nei programmi scolastici questo libro corposo, non sembra voler essere altrettanto premuroso e rispettoso verso la figura di Ippolito Nievo, quando si tratta di parlare del mistero, perché di mistero si tratta, che avvolge a tutt’oggi la sua morte.

La spiegazione appare probabilmente facile da trarre. Il Nievo scrittore e autore di un romanzo letterariamente notevole e dalle indiscusse virtù patriottiche, continua ad essere utilissimo alla causa nazionale. La sua “misteriosa” morte ovviamente no. Una doppiezza di atteggiamento che la dice lunga sulla coltre ideologica e propagandistica che ancora avvolge la narrazione delle vicende storiche che portarono all’Unità Italiana.

Ma andiamo per ordine. Ippolito Nievo prima di essere un grande scrittore, fu essenzialmente un grande “patriota”, uno di coloro che l’Italia provò a farla anche con il proprio sangue. All’importanza della plume come strumento di lotta, egli sembrò “romanticamente” accompagnare sempre e spesso prioritariamente la sciabola. Non deve dunque stupire nessuno, che la sua biografia sia costellata di azioni dirette e da una partecipazione attiva alle vicende risorgimentali. Dopo aver ultimato tra il 1857 e 1858 il suo romanzo principale Le confessioni di un italiano appunto, egli non cercò di pubblicare il libro, proprie perché le vicende politiche lo stavano portando ad un impegno più diretto.

Dopo aver scritto due opuscoli politici di evidente schieramento politico nel dibattito dell’epoca, Venezia e la libertà d’Italia, ispirato dalla mancata liberazione della città, e il Frammento sulla rivoluzione nazionale, Nievo decise di arruolarsi direttamente nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi. Un’unione quella con l’Eroe dei Due Mondi, alla quale fece seguito, nel 1860, la partecipazione dello scrittore alla famigerata spedizione dei Mille. Nievo fu il numero 690 di quella famigerata lista di “liberatori” che salpò alla volta della Sicilia con lo scopo di fare l’Italia “una e repubblicana”, come allora andava ripetendo Garibaldi.

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Unendosi alle truppe garibaldine il 5 maggio del 1860, Nievo salpò da Genova Quarto a bordo del Lombardo insieme a Nino Bixio e Cesare Abba. Distintosi nella battaglia di Calatafimi, se così la possiamo chiamare, e a Palermo, raggiunse il grado di colonnello e gli venne affidata la nomina di “Intendente di prima classe” dell’impresa dei Mille con incarichi amministrativi, divenendo il vice di Giovanni Acerbi. Fu anche attento cronista della spedizione (Diario della spedizione dal 5 al 28 maggio e Lettere garibaldine).

Si tratta di un ruolo effettivamente cruciale e di vitale importanza per la spedizione. In buona sostanza ad Acerbi e a Nievo è affidato il compito di gestire i soldi dell’esercito e rendicontare le spese sostenute durante la campagna. Una situazione, quella delle spese, oggettivamente problematica e probabilmente troppo onerosa per il giovane scrittore. Forse a Nievo e a Acerbi era stato affidato un incarico tanto delicato, proprio perché si voleva approfittare della loro inesperienza, per poter trafficare meglio e nascondere la natura dei contributi “stranieri” alla campagna dei Mille. Forse si voleva nascondere inoltre la vera natura di una spedizione che di militare in fondo aveva ben poco e che sembrava più la congiura ben assestata dalla superpotenza inglese, attraverso un ingente contributo della sua massoneria. Ma queste sono congetture. Vero?

Stranamente proprio sulle spese e la dismisura dei costi fece leva da Torino, Cavour per cercare di frenare l’impresa di Garibaldi, almeno a quello che riportano le cronache. Spese che sembravano folli e che diedero ai Piemontesi il pretesto di inviare in Sicilia un uomo di fiducia di Cavour, La Farina, allo scopo controllare i costi effettivi della spedizione.

Più che le imprese eroiche che ci vengono raccontate nei testi di scuola, a contare, durante l’eroica avanzata dei Mille, sembravano invece le spese gonfiate enormemente da speculatori d’ogni sorta, i finanziatori occulti che volevano rimanere tali, i soldi ottenuti durante le requisizioni degli istituti bancari delle città via via conquistate, un vero e proprio tesoro che faceva gola a molti. Una storia che più che all’epica dell’Iliade, assomiglia piuttosto alla Piovra di Michele Placido.

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Il povero Nievo, persona onesta e probabilmente mossa da un sincero “ideale”, sembrò essere quasi surclassato dalla mole di questi scandali che da subito investirono la spedizione. La sua onestà divenne addirittura oggetto di caricatura, tanto che a Torino si mormorava che egli dormisse sopra il tesoro confiscato e sul tesoro “inglese” imbarcato a Talamone, per paura di furti e nuovi scandali. E del resto le difficoltà per lo scrittore improvvisatosi amministratore non sembravano certo mancare. Furono sessantamila i cappotti acquistati per i garibaldini e mai indossati (verranno rivenduti a basso prezzo dagli stessi garibaldini durante la finta campagna). Nell’esercito improvvisato si contarono un numero spropositato di promozioni. C’era poi da gestire l’enorme cifra requisita al Banco di Sicilia, circa 200 milioni di euro odierni. Insomma ve n’era abbastanza per capire che il ruolo di Nievo si era fatto sempre più delicato nel corso della spedizione.

Di fronte a tale scandalo che rischiava non solo di gettare fango sul movimento garibaldino, ma anche sulla bontà e la sincerità del movimento risorgimentale, Ippolito Nievo, sembrò reagire nell’unico modo possibile: rendicontando tutto con la massima attenzione e la massima solerzia. Una puntigliosità e una correttezza che sembravano rispondere all’altezza dell’ideale, ma che in verità rischiavano di divenire una bomba ad orologeria. Perché se è vero che una guerra tra piemontesi e garibaldini poteva sorgere tra le ceneri del defunto e rapinato Regno delle Due Sicilie, nessuno aveva voglia di rendere noto le cifre della rapina in corso e soprattutto spiattellare ai quattro venti il sostanziale apporto “straniero”, ovvero inglese, alla spedizione dei Mille.

Sicuramente dietro alla vicenda, che porterà alla tragica fine di Nievo, ma sono solo “congetture”, lo ripetiamo, si nasconde lo scontro in atto a Torino fra due fazioni. Da un lato, i cavouriani intendevano dimostrare non solo che l’apporto garibaldino alla conquista era stato di facciata, ma anche che si fossero dissipate in maniera “allegra”, se non addirittura truffaldina, enormi somme di denaro. Dall’altro, vi erano i garibaldini che sostenevano il contrario. Entrambe le fazioni si accuseranno di avere avuto interesse nella sparizione della documentazione, ma lo faranno con estrema discrezione. In particolare, a nessuno interessò troppo fare sapere delle 10mila piastre turche (circa 12 milioni di euro) che erano arrivate dall’Inghilterra a Garibaldi.

In questo clima avvelenato, in cui dietro l’avanzata trionfale di Garibaldi verso Napoli, si combatté una guerriglia tra bande pronte a tutto pur di imporsi nel dominio della nuova Italia, i garibaldini finirono quasi per fare la parte degli utili idioti da presentare all’opinione pubblica mondiale per giustificare l’aggressione di uno Stato Sovrano come quello delle Due Sicilie. Non potremo mai sapere in quale misura Ippolito Nievo fu cosciente della situazione e provò a contrastarla, quello che sappiamo è che egli doveva sapere moltissime cose e molte di quelle segrete e più scottanti riguardanti la spedizione.

Richiamato a Torino per rendere conto delle spese della spedizione garibaldina in Sicilia davanti il futuro parlamento del Regno d’Italia, quando ormai il tradimento del sogno repubblicano era da tempo consumato, Ippolito Nievo si imbarcò alla volta di Napoli.

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Era il 4 marzo del 1861, 13 giorni prima della proclamazione del Regno d’Italia. Lo scrittore si trovava a bordo del Piroscafo “Ercole”, di circa 450 tonnellate di stazza. Per l’epoca era una nave vecchiotta ma perfettamente in grado di affrontare le normali navigazioni sulle rotte tirreniche. Il comando era affidato al capitano Michele Mancino, con 18 uomini di equipaggio, napoletani e calabresi, e 40-60 passeggeri. La destinazione è il porto di Napoli, la lunghezza prevista del viaggio è di 28 ore. Quasi contemporaneamente partono con uguale destinazione e rotta il piroscafo “Pompei” e il vascello inglese “Eximouth”. Con lui alcuni ufficiali garibaldini e soprattutto tutti i documenti riguardanti i conti della spedizione in Sicilia ed il conteggio esatto delle somme ritrovate nella casse borboniche.

Quello che segue è una storia nota. Il giornalista Gilberto Oneto, in un articolo apparso su Libero del 12 gennaio 2011, basandosi sul libro di Cesaremaria Glori La tragica morte di Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo Ercole (Edizioni Solfanelli), del 2010, scrive:

La navigazione procede tranquilla fino all’alba del giorno 5, quando un fortunale di qualche ora interessa lo specchio di mare attraversato. Alle 10 di mattina il tempo torna calmo e le altre due navi arrivano a Napoli. L”`Ercole” invece non compare e passano ben 11 giorni prima che si invii una nave a cercarlo. Per quattro giorni il vapore “Generoso” perlustra la rotta, ma rientra senza apparentemente aver trovato nulla: però il “Giornale di bordo” relativo a quei giorni sparisce.

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Solo il giorno 17 sul giornale “Omnibus” compare una breve notizia: «L’Ercole, battello a vapore della Compagnia Calabro-Sicula, è affondato a mezzavia tra Palermo e Napoli per un colpo di mare. Incerto il numero dei naufraghi». Tutti gli altri giornali tacciono. Il 1 aprile, dopo 25 giorni, lo stesso “Omnibus” scrive che c’è un superstite del naufragio, che è ricoverato in un ospedale napoletano. Ma di questo uomo si perde subito ogni traccia.”

Ovviamente si possono capire da cosa nascono determinate “congetture”, ma non vogliamo influenzare nessuno. Il giornalista, mosso ovviamente da un sacro fuoco per l’inchiesta comincia a farsi alcune domande che riporto nella loro interezza:

Perché un carico così prezioso non viene affidato a un vascello più sicuro o, addirittura, a una delle tante navi militari che solcano in quei giorni il Tirreno? Perché fare il giro da Napoli quando le carte sono attese a Torino? Perché le ricerche sono partite solo dopo 11 giorni dal mancato arrivo dell’Ercole”? Perché sull’intera vicenda si è fatto silenzio? Come è possibile che il naufragio di una nave di quelle dimensioni non lasci alcun relitto”

Non bisogna poi dimenticare che in quei giorni, visto che ad esempio il porto di Messina stava ancora portando una strenua resistenza, l’intera flotta Sabauda si trovava intorno alla città. E che una flotta inglese al comando di Muddy con ben otto navi, era salpata proprio il 4 marzo da Napoli in direzione di Malta. Come è possibile che nessuna abbia avvistato l’Ercole?

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Il nipote di Ippolito Nievo, Stanislao Nievo, anch’egli scrittore, che in diversi libri si è occupato delle vicende del famoso eroe risorgimentale.

Il pronipote di Ippolito Nievo, Stanislao Nievo, ha avuto il merito di strappare il caso dall’oblio e di riportarlo alla luce con due importantissimi libri, il prato in fondo al mare (1974) e Il sorriso degli dei (1997), che possono servire, insieme al libro di Glori, da utile bussola per chi volesse approfondire l’argomento. In tutte le sue estenuanti ricerche egli ha trovato pressoché nessuna traccia archivista riguardante l’intendenza della spedizione dei Mille, a Torino solo un fascicolo ma scrupolosamente vuoto.

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Lascio dunque i lettori con l’ennesimo dubbio della nostra meravigliosa storia d’Italia. E certamente con una domanda su tutte: il Priscafo Ercole affondò a seguito di una tempesta oppure per un’esplosione accidentale o dolosa?

Lo stesso Garibaldi in una lettera inviata da Caprera alla famiglia con straordinario tempismo il 28 febbraio, è freddino e stranamente “burocratico”: «Tra i miei compagni d’armi di Lombardia e dell’Italia Meridionale – tra i più prodi – io lamento la perdita del Colonnello Ippolito Nievo. Risparmiato tante volte in campo di battaglia dal piombo nemico – è morto naufrago nel Tirreno – dopo la gloriosa campagna del’60. Una famiglia che può vantare nel suo seno un valoroso quale il nostro Nievo (sic!) merita la gratitudine dell’Italia».

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Sembra quasi che le parole del Generale Giuseppe Garibaldi siano la chiusura del cerchio. Ad Nievo garibaldino zelante e schiettamente repubblicano, deve fare il posto il grande scrittore reso immortale dalle pagine, ovviamente pubblicate in maniera postuma, delle Confessioni di un italiano, il cantore dell’Italia una e indivisibile.

Forse un giorno le scuole italiane, con un guizzo per ora insospettato, sapranno integrare con maggiore “dialettica” l’opera e la biografia dell’autore. Forse in quel giorno si potrà parlare seriamente di “Risorgimento”, proprio a partire dalla scuola pubblica.

Nell’attesa mi si permetta una banalissima domanda: Ippolito Nievo morì davvero per questa Italia?

Intanto vi lascio con questa bellissima poesia dell’altro “martire” Pasolini:

Gli Italiani

L’intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da uno dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.

Mostrare la mia faccia, la mia magrezza –
alzare la mia sola puerile voce –
non ha più senso: la viltà avvezza

a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.

pasolini

MARCO INCARDONA