Recensire o semplicemente parlare di un libro come Coop connection di Antonio Amorosi, edito da Chiareletere nel 2016, non è un compito facile.
Questo innanzitutto perché si tratta di un libro concepito appositamente per andare controcorrente, per scioccare les idées reçues del pubblico, abituato, da una stratificazione decennale, ad orientarsi secondo coordinate prestabilite o ormai date per acquisite una volta per tutte.
In fondo si tratta di coordinate anche semplici da recepire, le più semplici di tutte. Da una parte vi è il Bene e dall’altro il Male. Dualismo che, nella complicata storia italiana, fatta di clan, di fazioni, di piccole patrie, si è tradotto e si traduce molto più banalmente e semplicemente in da una parte i Nostri e dall’altra gli Altri.
Forse, anche per questo, per comprendere e dispiegare un libro come quello di Amorosi è necessario fare appello al pensiero filosofico, proprio a quello che, a partire dall’Illuminismo, si è prefissato appunto di combattere contro la religione immobile des idées reçues.
In tutta la sua opera, e immolandosi quasi fisicamente e spiritualmente, Friedrich Nietzsche ha provato a smascherare “la menzogna bimillenaria”, come la chiamava lui. Ma non era tanto alla religione in quanto tale che egli affondava i suoi strali potentissimi, quanto piuttosto a quella morale sorta dalle religione per catalogare il mondo secondo categorie predefinite. Una morale che si voleva naturale, data una volta per tutte, e che invece il filosofo tedesco ci ha insegnato a comprendere secondo la sua genesi e sviluppo storico, secondo la sua genealogia, come recita il titolo di una delle sue opere più importanti: “La genealogia della morale”.
Ma cosa c’entra in fondo Nietzsche con un libro che si occupa di Coop?
C’entra eccome, perché l’antico vizio del dualismo religioso tra bene e male è duro a morire e fa sì che sul male si puntino tutti gli strali della critica, mentre sul bene si adagi lo sguardo benevolo di chi accondiscende a priori.
E si sa, almeno sulla carta, tra le cose sulla carta ideale del mondo in cui viviamo, un mondo in cui la finanza e il denaro la fanno da padroni, è senza dubbio il sistema cooperativo.
Ideale bellissimo, troppo bello per essere vero, quello del mutualismo, quello dei piccoli che si associano per emanciparsi dal sistema capitalista dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Cosa poter obbiettare contro un ideale così bello e progressista? Nulla
Invece Antonio Amorosi prova proprio, come ci ha insegnato Nietzsche, a scardinare il giudizio aprioristico su un fenomeno, quello delle cooperative, che, come tutti i fenomeni storici, andrebbe invece analizzato nella sua storia, ovvero nella sua concreta traiettoria.
Ad essere scardinato da Amorosi, è innanzitutto il racconto agiografico che le cooperative, e coloro che le hanno appoggiate politicamente, hanno fatto del loro compito sulla carta, per mascherare il loro operato effettivo.
Ma ancora una volta è un filosofo, Jacques Derrida, citato questa volta da Carmelo Bene, a darci le coordinate per comprendere il libro di Amorosi. “l’informazione informa i fatti e mai sui fatti”. Il giornalismo ipostatizzando i fatti, e descrivendoli non secondo la loro genesi interpretativa, ma secondo il loro darsi, così come sono, una volta per tutte, aiuta a far risorgere la morale religiosa data una volta per tutte. I fatti presentati come neutri, danno il là al risorgere della morale basata su categorie inamovibili e non modificabili.
Eccoli i fatti, quelli che ci vorrebbero far archiviare una volta per tutte il fenomeno delle cooperative come un in sé positivo e idealistico:
“La cooperativa è un’impresa – in forma di società – nella quale il fine e il fondamento dell’agire economico è il soddisfacimento dei bisogni della persona (il socio): alla base della cooperativa c’è dunque la comune volontà dei suoi membri di tutelare i propri interessi di consumatori, lavoratori, agricoltori, operatori culturali, ecc.
L’elemento distintivo e unificante di ogni tipo di cooperativa – a prescindere da ogni altra distinzione settoriale – si riassume nel fatto che, mentre il fine ultimo sia delle persone che delle società di capitali è la realizzazione del lucro si concretizza nel riparto degli utili patrimoniali, le cooperative hanno invece uno scopo mutualistico, che consiste – a seconda del tipo di cooperativa – nell’assicurare ai soci il lavoro, o beni di consumo, o servizi, a condizioni migliori di quelle che otterrebbero dal libero .mercato”(fonte Wikipedia)
Queste sono le cose che tutti abbiamo in mente quando pensiamo alle cooperative. Alla mente ci vengono le idilliache pubblicità che ci rammentano che ci sono le “persone oltre le cose” (pubblicità coop), oppure che mentre noi dormiamo c’è qualcuno che pensa alla qualità di quello che noi mangeremo l’indomani. (pubblicità conad)
Tutto vero forse. Eppure Antonio Amorosi ci invita perentoriamente ad andare oltre, più in profondità. Lui che di cooperative e di sistema emiliano se ne intende, visto che a soli 34 anni era divenuto assessore alle politiche abitative del Comune di Bologna sotto la giunta Cofferati, e ha avuto modo, sedendo su una poltrona che scotta, quella che assegna le case popolari, di capire quale sordido sistema clientelare si annidasse dietro le assegnazione degli alloggi e non solo, dietro tutto quello che si muoveva a Bologna. Dopo un anno e mezzo Amorosi si dimise dal suo incarico, ma non smise certo di indagare e di scardinare les idées reçues che voleva catalogare il sistema emiliano basato sulle cooperative come indiscutibilmente positivo.
Antonio Amorosi ci racconta dunque in questo suo sconvolgente libro un’altra storia, una storia che andrebbe non solo letta, perché va detto, si tratta di un viaggio che si lascia leggere tutto d’un fiato, ma studiata e approfondita non solo per la puntualità con cui i dati sono descritti e documentati, ma per capire la nostra storia recente e più specificatamente, perché sia stata proprio la sinistra ex comunista a mettere in campo il più ampio programma di smantellamento dello stato sociale che l’Europa Occidentale abbia conosciuto dopo la Thatcher.
“Se riesci a documentare il mondo coop vinci il Pulitzer” mi ha confidato ridendo l’ex presidente della municipalizzata HERA, Stefano Aldovrandi. Il modello coop a cui pensa è totalmente sconosciuto al pubblico italiano. Gli attori coinvolti non ne rivelano i segreti. Ma qui non si tratta di vincere o di perdere. Si tratta di raccontare una compagine inaccessibile fatta di intere famiglie, che vivono o muoiono a seconda dell’affinità a una struttura ramificata. Di uomini che hanno privilegi solo perché appartengono a sigle che si riproducono sempre uguali per generazioni. O di persone che non hanno diritto ad accedervi o a lavorare in certi territori, e che rimangono solo passivi consumatori. Le cooperative sono un impero economico, una corporation e al tempo stesso un’alternativa alla competizione individuale. La Legacoop, le cosiddette coop rosse di origine comunista e socialdemocratica, è un colosso di quindicimila cooperative, circa 79 miliardi di fatturato, superiore al 4% del Pil italiano, 8,9 milioni di soci e 493 mila dipendenti. La megaorganizzazione nazionale, nata nel secondo dopoguerra in Emilia-Romagna è il cuore delle coop, con ramificazioni in ogni angolo d’Italia. E’ la dorsale economica delle cosiddette “regioni rosse”, Emilia-Romagna, Toscana Umbria e parte delle Marche. Lì la sinistra vince con facilità dal dopoguerra tutte le elezioni, fino a giungere al PD, e le coop ne sono il braccio finanziario. La finanza ha causato la crisi economica globale del 2008-2014. Ma mentre l’economia è collassata, le coop sono cresciute e si sono alleate tra loro sotto l’egemonia di Legacoop. Un mondo diviso ma che nel 2011 il presidente di Legacoop Giuliano Poletti (attuale Ministro del Lavoro nel Governo di Matteo Renzi) ha unito facendo cadere le ultime barriere ideologiche. Come nel 2007 si sono fusi i Partiti DS e Margherita, ex comunisti e cattolici, dando vita al Partito Democratico, così coop rosse e coop bianche si sono unite. E’ nata in questo modo l’Alleanza delle cooperative italiane tra Legacoop, Confcooperative, le coop bianche di matrice cattolica e l’Agci, di origine repubblicana e socialista. Confocooperative ha ventunomila imprese, 65 miliardi e 100 milioni di euro di fatturato e 543.000 occupati. L’Agci ha invece settemila coop, 7 miliardi di fatturato e settantunomila occupati. L’Allenaza coop conta dodici milioni di soci e un milione e centomila persone occupate. Secondo Legacoop tutte le sigle si fonderanno entro il 2016. Attualmente le imprese associate nel’Alleanza sono circa quarantatremila per 151 miliardi e 100 milioni di euro di fatturato complessivo. Una cifra immensa già nel 2012, cresciuta ulteriormente negli anni successivi. Superiore all’8% del Pil italiano e che sovrasta il Prodotto interno lordo di molti Stati Europei, come l’Ungheria, ed è simile a quello di Bulgaria, Croazia e Slovenia messe assieme.”
Basterebbe questa pagina per capire che la storia di cui ci parla Amorosi è una storia ben diversa da quella raccontataci dalla Letizzetto nelle pubblicità televisive.
Una storia che ci parla di un potere immenso e tentacolare, fatto di circolarità di cariche, in cui oggi si è assessori in un comune, domani presidenti di un consorzio o di una partecipata comunale, e dopodomani presidenti di provincia o consiglieri regionali. Un sistema dove controllori e controllati sono la stessa famiglia, sono la stessa cosa.
Una storia che ci parla di un sistema di agevolazioni fiscali molto simile a quello di cui godono le grandi Multinazionali in virtù dei trattati Europei di libero scambio e dei parametri del WTO in vigore dal 1994.
Una storia che con gli ideali delle origini e che con l’emancipazione della classe operaia e contadina ha ormai ben poco a che vedere.
“Coop connection” è un viaggio a volo d’aquila su questo mondo lasciato sommerso per crescere come l’ennesima piovra della storia italiana e prendersi il potere. E’ un viaggio acuto e penetrante, volutamente non rinchiuso nella forma saggio, né nei canoni della classica inchiesta giornalistica. Un libro che si lascia a tratti leggere come un romanzo, ma che parla di fatti dei quali Antonio Amorosi si è documentato in profondità e che ci descrive con assoluta incisività.
Leggendo le pagine del libro, è impossibile non ripensare alla recente storia italiana, non pensare a Mani Pulite, alla corruzione come era ieri, le mazzette, e come è oggi circolarità di cariche e fondazioni, ripensare a venti lunghi anni di scontro tra bande, tra due blocchi solo apparentemente contrapposti.
Ci ricordiamo tutti Violante che confessava alla Camera come il Centro sinistra avesse non solo salvato le reti televisive di Silvio Berlusconi, ma di come le avesse addirittura fatte crescere e sviluppare.
Ma forse ci ricordiamo molto meno di quante volte da Vespa, o in altri salotti televisivi, Berlusconi abbia detto di non aver mai toccato il sistema di privilegi fiscali delle cooperative rosse e non.
Due fatti entrambi veri che, se sommati, gettano una luce diversa sulla nostra recente storia, ma che allo stesso tempo ci consentono forse di comprenderla appieno e in profondità.
Marco Incardona