Un breve appunto mattutino

Solo chi rimane sempre lucido e guarda in faccia le cose nel loro immenso dolore, conosce l’immane e vacuo egoismo che si annida dietro la gran parte delle azioni umane. Ognuno si trova solo una teoria per giustificarsi e per giustificare impunemente ciò che fa. Vita inautentica ma soprattutto vita offesa. Il pensiero che non lacera, che non è effrazione continua del possibile nel suo divenire tale, si trasforma in utensile spuntato e pur sempre offensivo, nelle mani di barbari assetati di sangue. Nessun pensiero che è veramente tale, parla realmente di noi. Fortunatamente.

Marco Incardona

TRA RIBELLIONI DELLE ELITE E RIBELLIONI DELLE MASSE, RIBELLARSI HA ANCORA UN SENSO?

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Come tutti sanno, nell’ottobre del 1929 (prima il giovedì nero del 24 poi il definitivo Crash del 29 ottobre) la borsa di New York, espressione dell’economia di gran lunga più ricca e potente del pianeta crollava improvvisamente bruciando per sempre delle cifre colossali. Iniziava la più grave crisi economica mondiale che il mondo moderne avesse conosciuto. La Grande Depressione appunto. Gli Stati Uniti tornarono al PIL (quello tanto caro agli economisti) raggiunto nel 1929 prima del crollo, solo 1941. con due picchi un -23,27% nel 1932 e un più 24,95% nel 1941. Tutti sanno, o credo sappiano, che, nel frattempo, era scoppiata una guerra mondiale e gli USA avevano cominciato a produrre armi e beni per i suoi alleati in guerra. Ma questa è un’altra storia, o meglio, non è la storia che vi voglio raccontare in questo articolo.

Forse in pochi sanno invece che proprio in quel fatidico 1929 che tante conseguenze ha avuto sulle nostre esistenze, nell’arretrata Spagna, nel giornale El Sol il filosofo Ortega y Gasset aveva cominciato a pubblicare a puntate, sotto forma di articolo, il suo saggio più importante e celebre: La rebelión de las masas (La ribellione delle masse).

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Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset

Triunfa hoy sobre todo el área continental una forma de homogeneidad que amenaza consumir por completo aquel tesoro. Dondequiera ha surgido el hombre-masa de que este volumen se ocupa, un tipo de hombre hecho de prisa, montado nada más que sobre unas cuantas y pobres abstracciones y que, por lo mismo, es idéntico de un cabo de Europa al otro. A él se debe el triste aspecto de asfixiante monotonía que va tomando la vida en todo el continente. Este hombre-masa es el hombre previamente vaciado de su propia historia, sin entrañas de pasado y, por lo mismo, dócil a todas las disciplinas llamadas «internacionales». Más que un hombre, es sólo un caparazón de hombre constituido por meres idola fori; carece de un «dentro», de una intimidad suya, inexorable e inalienable, de un yo que no se pueda revocar. De aquí que esté siempre en disponibilidad para fingir ser cualquier cosa. Tiene sólo apetitos, cree que tiene sólo derechos y no cree que tiene obligaciones: es el hombre sin la nobleza que obliga -sine nobilitate-, snob.

Traduco qua per coloro che non leggessero lo spagnolo:

Trionfa oggi su tutta l’area continentale una forma di omogeneità che minaccia di consumare completamente quel tesoro (intende quello dei valori spirituali e culturali dell’Europa). Dappertutto è sorto l’uomo-massa, l’uomo di cui questo volume intende occuparsi, un tipo di uomo fatto in fretta e furia, montato niente meno che poche e misere astrazioni e che, non di meno, è lo stesso ormai da un capo all’altro dell’Europa. A questo tipo d’uomo si deve l’aspetto di monotonia asfissiante che sta assumendo la vita in tutto il continente. Questo uomo-massa è l’uomo che è stato in precedenza svuotato della sua stessa storia, senza un senso profondo del suo passato, e per questo docile e malleabile a tutte le discipline chiamate “internazionali”. Più che un uomo, è piuttosto un guscio d’uomo costituito da meri idola fori; manca di “dentro”, di una sua intimità, inesorabile e inalienabile, di un io che non si possa revocare. Da qui ne deriva che esso sia disposto di fingere di essere qualunque cosa. Ha solo appetiti, crede di avere solo diritti e non crede di avere anche degli obblighi, è un uomo senza nessuna nobiltà, senza nessun concetto del noblesse oblige, un uomo snob.”

Come facile immaginare, questo libro, che per certi versi, descrive mirabilmente l’uomo-massa che ancora oggi si deresponsabilizza davanti alla storia e alle scelte sociali e scorribanda con il suo gusto-pecora nel mondo globalizzato a suon di video virali, fu allora oggetto di accese critiche.

Da una parte fu oggetto di critica l’esaltazione acritica delle élites di fronte alla ferocia, e forse anche giusta critica delle masse descritte dal filosofo spagnolo. Dall’altra si contestava radicalmente sulle strategie d’uscita rispetto al quadro d’insieme descritto nel libro, che i totalitarismi degli anno Trenta, non avrebbero tardato di mettere in luce. Se Ortega y Gasset sembrava quasi prospettare un nostalgico ritorno alla status quo ante come unica modo per impedire alla massa amorfa di distruggere i presupposti e i valori che stavano dietro al concetto di democrazia, per i critici progressisti del libro, l’unico modo era quello di democratizzare la massa, di renderla cioè una soggettività sociale consapevole e capace di perseguire i propri interessi. Non dovevano e non potevano decidere le élites, fossero esse politiche, culturali o economiche delle strategie da imporre su una massa considerata amorfa e amorale. Non potevano e non dovevano farlo nemmeno in nome dei cosiddetti valori occidentali di cui le élites si facevano portatrici. Non potevano e non dovevano farlo nemmeno di fronte al rischio drammatico che l’uomo-massa si trasformasse nel sinistro e silenzioso complice delle barbarie novecentesche, che si trasformasse, nell’esecutore deresponsabilizzato di meccanismi burocratici e tecnologici spersonalizzanti e disumani.

Per i critici di Ortega y Gasset, la risposta doveva venire proprio dalla società, proprio dall’informe massa di individui senza storia e senza identità che per il filosofo spagnolo costitutiva la più grande minaccia alla democrazia e alla civiltà occidentale. Bisognava aprire la società, liberare le soggettività sociali, dare coscienza alle masse trasformandole in corpi politici attivi e capaci di rendere la democrazia sostanziale e non parola vuota di senso reale e appannaggio di pochi virtuosi in quanto economicamente favoriti.

Si trattava di rendere politico il sociale, si trattava di dare il potere alle classi che fino a quel momento avevano subito la politica e l’economia, che fino a quel momento erano stati rimasti fuori dal perimetro della storia e che, tutt’al più, l’avevano subita.

In questa immane sfida per dare voce e coscienza a chi non l’aveva mai avuta e l’aveva solo subita, i progressisti e le sinistre occidentali hanno riposto tutto e hanno cercato l’unica risposta possibile, almeno dal loro punto di vista, alle problematiche messe in campo da Ortega y Gasset.

Mentre il proletariato rivendicava diritti sul lavoro, esso doveva avere coscienza di classe, coscienza politica, coscienza sociale, doveva avere cioè una STORIA. E con esso tutti quei movimenti sociali che hanno messo in discussione il concetto di massa in nome di soggettività responsabili e capaci di richiedere diritti in un nome di una più ampia emancipazione.

La politica, il politico doveva estinguersi nel sociale, nelle tematiche sociali, nelle rivendicazioni sociali. La cultura doveva farsi portavoce di queste rivendicazioni, registrare le contraddizioni sociali, descriverne le derive patologiche. Il pensiero doveva farsi critico, doveva svelare le manipolazioni del potere, doveva smascherarne le false pretese ideologiche, dove dotare le soggettività di scelta critica e consapevole, di capacità di resistenza di fronte a politiche miranti a smobilitare il conflitto sociale e diluirlo in un indistinto armonico.

Non si trattava tanto e solo del mito della rivoluzione, dell’avanguardismo politico, forieri come si è visto di altrettanti elitarismi e di altrettante avversioni contro le “masse apatiche e inerti”, si trattava piuttosto di dare sostanza alla democrazia sociale come assetto organizzativo capace di veicolare in modo razionale le prevedibili accelerazioni tecnologiche nel sistema di produzione e nei sistemi di comunicazione.

Si parlava allora e si è continuato a parlare di democrazia “sostanziale” ovvero di democrazia nelle industrie, di democrazia nelle scelte di produzione, di democrazia nell’assetto dell’informazione, di democrazia nelle scelte etiche.

Nessuna democrazia era dunque possibile se nel lavoro vigevano regole autoritarie e gerarchicamente elitarie. Nessuna democrazia era possibile se la produzione non poteva essere anch’essa discussa ma doveva essere meramente subita, se cioè, come diceva un tempo Marcuse, la produttività non poteva essere veicolata in modo razionale e destinata alla fasce deboli delle società.

Si trattava di una sfida immensa, di una scommessa radicale, di un progresso incessante e qualitativamente crescente delle soggettività sociali. Si trattava di una sfida che rendesse il totalitarismo impossibile non solo politicamente, ma anche e soprattutto nel sistema di produzione, nell’organizzazione sociale in sé.

In questo articolo non si tratta certo di ripercorrere la storia di questa lotta per democratizzare la società, per estinguere la politica elitaria nel sociale e per dare voce a soggettività precedentemente oppresse o del tutto emarginate dalla storia ufficiale. Sarebbe lunga e meriterebbe un’analisi lunga e complessa.

Per Ortega y Gasset le élites erano necessariamente portatrici di valori ritenuti sacri e quindi carichi di responsabilità. Responsabilità di una storia, di una tradizione, di un gusto, di un pensiero. Nella sua visione, l’uomo-massa si ergeva invece a oca giuliva giunta a godere dei frutti dell’abbondanza senza nessuna responsabilità critica, senza nessun senso della misura. Smisurato, senza equilibro, incapace di valutare, di scegliere, di selezionare e disposto solo a consumare, a godere, a rivendicare, a semplificare, a smussare gli angoli, a pretendere che la cultura e il pensiero si piegassero al suo volere, piuttosto che il contrario.

Per coloro che invece si opponevano e si opposero a questa visione “elitaria”, le élites erano irresponsabili, o meglio erano responsabili del monopolio sulla cultura e sui valori morali e collettivi, al solo fine di perpetrar un potere di pochi su molti. I valori occidentali e democratici potevano avere un senso solo dando coscienza alle masse, solo rendendole capaci di rivendicare, di sognare, di crearsi un proprio immaginario, capaci di costruirsi la propria storia.

Molti pensatori, condannando ogni deriva elitaria, e spingendo verso una reale presa di coscienza delle soggettività sociali, avevano ovviamente individuato i rischi ai quali sarebbe andata incontro la nostra civiltà perdendo una tale battaglia.

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Nella Dialettica dell’illuminismo, Adorno e Horkheimer avevano riscontrato in tutto il movimento di liberazione dell’uomo inaugurato dall’illuminismo, una strisciante deriva a mutarsi nel dominio del piano oggettivo su quello soggettivo, del piano materiale su quello spirituale, rischiando così di fare delle potenzialità liberatorie aperte dall’era della tecnica, un potenziale strumento per l’affermazione della barbarie spersonalizzante.

Anni dopo, un francofortese acquisito e allievo di Heidegger, Marcuse nel suo celebre saggio “L’uomo a una dimensione” aveva ancora una volta messo in guardia che la modernità non si appiattisse al solo lato materiale e che non veicolasse unicamente i valori e i bisogni dell’essere umano in oggetti prodotti e lanciati sul mercato.

Dal canto suo Gunther Anders come nessun altro aveva messo in guardia dai guasti permanenti che la società tecnica avesse inaugurato con le bombe atomiche americane.

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Il grande filosofo tedesco Gunther Anders

Democrazia sostanziale o barbarie avrebbero certamente detto questi pensatori e noi con essi.

Ma alla luce di quanto detto, alla luce di quanto possiamo constatare ogni giorno, alla luce della capacità attuale, o meglio dell’incapacità attuale dei soggetti sociali di farsi portatori di valori universali e di lottare per essi, cosa rimane oggi di quella sfida?

La risposta è fin troppo facile: ben poco, per non dire nulla.

I soggetti sociali sono tornati ad essere da decenni masse inerti e quando risorgono si dimostrano incapaci di farsi realmente portatori di valori universali e validi per l’intera società. Soggetti sociali atomizzati, relegati al micro delle rivendicazioni per i diritti civili e mai per i diritti sociali.

Come mirabilmente ci ha insegnato Baudrillard le masse si dimostrano refrattarie ad ogni dialettica di senso, ovvero ad ogni strategia atta a dare significato ad un corpo sociale e molto più disposte a veicolare, riproducendoli fino ad esaurimento, i messaggi strombazzati degli slogan pubblicitari. Alla paziente emersione del conflitto di senso, che in società significa conflitto di protagonisti e di rivendicazioni, le masse hanno preferito il riprodursi codificato della società dello spettacolo, che è società di segni e mai di significati.

All’obbligo della responsibilità che compete al soggetto cosciente e responsabile esse hanno preferito la recita e la trasversalità del ruolo che sono tipiche del mondo dello spettacolo.

Masse che non sono meramente passive come lo furono un tempo, masse che rifiutano la scelta che è tipica di chi lotta e preferiscono la partecipazione, che è tipica di chi va uno spettacolo.

Masse che non criticano, prendono posizione, che non si ribellano, si disaffezionano, che non si oppongono, si fanno snob e si beano nello specchio del dissenso.

Ma sono masse fatte di uomini-massa come diceva Ortega y Gasset o sono piuttosto qualcosa di diverso?

Non è facile rispondere ad una tale questione, ma sicuramente sarebbe troppo facile e certamente fuorviante pensare che questo tipo di massa sia il frutto di una strategia del potere atto a rendere apatiche le masse.

Refrattarie al sociale, ad essere protagoniste del sociale, esse hanno non di meno esautorato di senso la politica e il piano politico, il quale, per sopravvivere, per essere veicolo di segni semantici, se non più di significati e di messaggi, ha dovuto spettacolarizzarsi, farsi “teatrino”, talk show, passare dalla tribuna al salotto, dalla piazza allo studio e dalla manifestazione all’happening.

Nella politica dello spettacolo muore certamente il sociale già agonizzante con il riflusso post anni settanta, ma muore anche la politica intesa come dotazione di senso di una determinata sociatà.

L’uomo-massa di oggi assomiglia per certi versi molto e per altri pochissimo rispetto a quello descritto da Ortega y Gasset.

Non ha l’incosciente brio dell’irresponsabile, ma la vacua civetteria del narcisista patologico, non ha la retorica truffaldina di colui che pretende tutto, ma la solennità altisonante di colui che esalta l’individuo ma a patto che gli altri lo siano di meno.

Quest’uomo massa non azzarda a richiedere gaiamente la luna del ben godi, si accontenta di disporre di quello che ha già sul piatto.

Alla rozzezza del “se non ti capisco è colpa tua” dell’uomo massa che faceva tanto orrore a Ortega y Gasset, esso si accontenta di ostentare e di limitarsi entro i limiti di quello che un tempo il potere riteneva essere buon senso. Massa conservatrice, restia al cambiamento e pronta solo allo spettacolo effimero. Massa che si celebra nella malattia del selfie.

Uomo-massa certamente, ma innanzitutto homo consumericus, consumatore; questo caratterizza più di tutti le masse odierne e ne fa il collante sociale.

Un tempo il capitalismo, ovvero il sistema di produzione che si era fatto garante e padrone dei risultati delle rivoluzioni tecnologiche sulle possibilità di produzione, si preoccupava solamente di avere un assetto politico e burocratico organizzato per riprodurre e mantenere il sistema di produzione vigente.

Spaventava cioè che gli operai si trasformassero in soggetti dotati di coscienza sociale e politica tale, da rivendicare mutazioni strutturali non solo nella ridistribuzione della ricchezza, ma anche nella messa in discussione della proprietà dei mezzi di produzione.

Avere il controllo nelle fabbriche, averlo nella società e nella politica era sufficiente. Davanti vi era un mercato infinito, un mercato che si dava di per sé con la crescita economica.

Ma questa fase non poteva che durare poco, visto che per non perdere il monopolio sulla produzione le classi capitalistiche hanno contrastato la proposta marcusiana di di razionalizzare la produttività industriale verso tutti i settori sociali.

Allora davanti al rischio di una rapida saturazione dei mercati davanti agli oggetti considerati come meri oggetti d’uso, anche se espressione della modernità e quindi auspicabili, si è presa la strada di creare una società di consumatori.

I consumatori non consumavano oggetti in base all’uso e alla funzione d’uso, ma simboli, simboli che diventano strutturazione di appartenenza sociale. Cambiare per veicolare l’abbondanza, comprare per allargare il campo dell’essere al passo con i tempi, non è era più l’uomo operaio che faceva paura al capitalismo, ma l’uomo che decidesse di non trasformarsi innanzitutto in consumatore. Infatti, davanti al lussureggiante flusso dei consumi, le distinzioni sociali hanno smesso di avere significato e il tempo libero è divenuto più importante del tempo di lavoro per strutturare l’individuo sociale. Produrre e consumare sono divenuti più importanti di cosa produrre e per chi produrre.

Ma anche queste sono cose arcinote che meriterebbero una trattazione più lunga. Basti pensare alle quote crescenti destinate alla pubblicità dalle aziende, per capire che cosa si vuole dire. Indurre i sogni per poi trasformarli in bisogni attraverso un scambio simbolico impazzito e incapace di fermarsi alla vera realtà dell’oggetto. La pubblicità non si occupa d’altro, facendo partecipare gli oggetti di uno spettacolo nel quale quello che conta non è la verità del messaggio, ma la sua autenticità. La sua attinenza all’economia della recita.

Gli attori sociali di un tempo, la politica, la cultura si sono dimostrati impotenti e incapaci di contrastare minimamente questa deriva consumista che ha finito per vuotare di “senso” i valori occidentali tanto cari a Ortega y Gasset.

Un’impotenza che per alcuni si è mutato in disinteresse e in disprezzo aperto verso le masse e gli stessi processi democratici.

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Il sociologo americano Christopher Lasch

Nel 1994 infatti, poco prima della sua morte, il grande sociologo americano Chistopher Lash, famoso per il suo libro sull’uomo contemporaneo narcisista, aveva pubblicato un libro che voleva essere una chiara risposta al libro di Ortega y Gasset di 65 anni prima: La ribellione delle élite.

Scrive il grande sociologo americano:

Una volta era la “ribellione delle masse” che minacciava l’ordine sociale e le tradizioni di civiltà della cultura occidentale. Ai nostri tempi, invece, la minaccia principale sembra venire da chi si trova al vertice della gerarchia sociale, non dalle masse. Questa straordinaria svolta degli eventi confonde le nostre aspettative sul corso della storia e mette in discussione assunti stabiliti da tempo.

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Quando Ortega y Gasset, nel 1929, pubblicò la ribellione delle masse, non poteva prevedere un tempo in cui sarebbe stato più appropriato parlare di “ribellione delle élite”. Scrivendo all’epoca della rivoluzione bolscevica e dell’ascesa del fascismo, all’indomani di un conflitto apocalittico che aveva lacerato e sconvolto l’Europa, Ortega attribuiva la crisi della cultura occidentale al “dominio politico delle masse”. Ma oggi sono le élite – i gruppi che controllano il flusso internazionale del denaro e dell’informazione, che dirigono le fondazioni filantropiche e le istituzioni di studi superiori, che controllano gli strumenti di produzione culturale e definiscono quindi i termini del dibattito pubblico – ad avere perso fede nei valori occidentali, o in quanto ne rimane. Per molti, ormai, lo stesso termine di “civiltà occidentale” richiama alla mente soltanto un sistema organizzato di dominio designato ad assicurare la conformità ai valori borghesi e a mantenere in un stato permanente di soggezione le vittime dell’oppressione patriarcale. Le donne, i bambini, gli omosessuali e la gente di colore”

Secondo Lasch dunque sarebbero le élite ad aver abbandonato ogni responsabilità verso la società nel suo intero e ad aver sistematicamente propugnato una società a due velocità nella quale i cosiddetti valori universali illuministici della civiltà occidentali hanno finito per non avere nessun significato e nella quale merito e ascensione sociale hanno più significato di pari opportunità e società giusta.

Elite irresponsabili che in nome di una competenza e di una specializzazione si abbandonano a crociate salvifiche che sono più l’espressione di un dominio di classe e di una possibilità di classe, che la lotta reale per l’affermazione di valori universali.

Banalmente, parlare di cibo vegano, di consumo chilometro zero, di macro biotico, di viaggio responsabile in paesi esotici ecc davanti a un disoccupato o a qualcuno che ha la pensione minima, ha lo stesso effetto della frase di Marie Antoinette (per altro mai pronuciata, sembra) “il popolo ha fame dategli delle brioches”.

Del resto come dice Lasch

Il regno della specializzazione – il cui instaurarsi è il risultato necessario di una politica che identifica l’opportunità con l’accesso ai posti “di maggior considerazione” – è l’antitesi della democrazia, come l’hanno intesa coloro che vedevano negli Stati Uniti “l’ultima, migliore speranza della terra”

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Un’altra immagine del sociologo americano C. Lasch

In pochi sanno che, proprio nel 1994, anno d’uscita del libro di Lasch, a Marrakech veniva redatto il famoso protocollo di Marrakech che avrebbe portato alla formazione dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), voluto proprio da quelle élite che in nome delle possibilità di investimento e quindi dei meriti degli investitori, si stavano prefiggendo di liberalizzare radicalmente tutto il pianeta e di fare della finanza speculativa, l’arbitra delle sorti di milioni di ignavi cittadini Una macabra coincidenza, che suona ancor più macabra se si pensa all’impoverimento inarrestabile della classe media e di quella operaia nelle società occidentali, avute a seguito della crisi degli ultimi anni, ovvero di quelle classi sociali che avevano abbandonato le lotte sociali e il protagonismo sociale in nome della società dello spettacolo e del consumo sfrenato.

Da una parte lo spettacolo insensato a tutti i costi delle masse consumiste apatiche e refrattaria ad un avere giudizio critico su niente, dall’altro la retorica del merito e della competenza di élite irresponsabili e poco disposte al “noblesse oblige” dei valori validi per tutti e della solidarietà sociale. Da una parte l’uomo-massa, l’homo consumericus, dall’altra l’uomo-élite, snob, in ricerca di continue fissazioni patologiche per esprimere il proprio dominio di classe e sempre più staccato da un popolo che considera come una minaccia o nella migliore delle ipotesi come un ammasso di stupidi da manipolare.

A ben vedere dunque, sia le masse che le élite di oggi hanno poco a che vedere con quelle descritte da Ortega y Gasset, o forse, per meglio dire, della visione che egli se ne era fatto.

Ma una cosa risulta essere molto chiara per chiunque voglia dare ancora un senso alla parola democrazia o a parole quali valori universali, responsabilità e coscienza sociale: bisogna combatterle entrambe.