CASTA POLITICA O SOLO UN AMMASSO DI CORTIGIANI SENZA PUDORE E SENZA DIGNITA’?

Friedrich Nietzsche era un uomo che non amava i conformismi, che non amava la morale conformista, eticamente, per dirla alla Hegel, si prefiggeva di rompere le ultime catene che opprimevano spiritualmente l’essere umano. Da grande ottimista quale egli era ebbe modo di dire:”L’individuo ha sempre dovuto lottare per non essere sopraffatto dalla tribù. Se lo provate, sarete spesso soli, ed a volte spaventati. Ma nessun prezzo è troppo alto da pagare per il privilegio di di possedere se stessi.”

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Per i politici probabilmente il concetto di privilegio deve essere un altro e senza dubbio molto meno nobile e molto più attinente alle ridicole pretese di casta da cortigiani dell’alta finanza. Ma che farci, all’uomo che si libera dalle catene della morale conformista professato dal filosofo tedesco, questi signori preferiscono le ricette preconfezionate e gli slogan in slide da spiattellare come tanti pappagalli fino ad esaurimento.

L’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti è passato alla storia per la frase infelice, quanto fondamentalmente esatta che di cultura non si mangia (la cultura e l’industria culturale non sono la stessa cosa fortunatamente) ed allora fu una levata di scudi e di proteste da parte della casta dei benpensanti. Forse la cultura dà da mangiare o forse no, quello che è certo, è che sicuramente paga, al tempo d’oggi, l’essere conformisti. Almeno in politica, visto che a decenni è ormai impossibile pretendere dai politici “democratici” qualcosa di più che la eco di un pensiero unico, rispondente all’interesse di gruppi economici finanziari certamente non democratici e sicuramente interessati ad avere una pletora di cortigiani al proprio servizio.

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Nel suo celeberrimo libro “La Grande Trasformazione”, Karl Polanyi, riflettendo sulla grande crisi economica degli anni Trenta, provocata, guarda un po’, proprio dalle pretese della finanza internazionale di dettare alla politica e alla società le carte del gioco e quindi obbedire pedissequamente ai dettami del pensiero unico, suggeriva, come unico modo per rompere questa oppressione pericolosissima, una storica alleanza tra politica e società per controbilanciare l’abnorme strapotere dell’economia finanziaria.

Sappiamo bene cosa ha prodotto la protervia irresponsabile dell’economia finanziaria di quegli anni. Certo, Mussolini, Hitler, la Seconda Guerra Mondiale e Hiroshima, non sono solo responsabilità della casta finanziaria, ma una buona parte della responsabilità certamente sì . E lo sapevano molto bene anche gli appartenenti alla casta, visto che dovettero accettare, loro malgrado, un mondo post bellico basato sul welfare e sul controllo sui flussi finanziari.

Da allora, per la casta finanziaria e i cortigiani al seguito, si è trattato soprattutto di riprendersi il potere perduto, di restaurarlo. Riformisti a parole, in realtà la loro strategia era quella di una grande Restaurazione planetaria. Creando fondazioni, università private, borse di studio, mettendo uomini propri nei ministeri chiave, i gruppi finanziari hanno pazientemente tessuto la trama della loro scalata al potere. Finché l’Unione Sovietica, il Male Assoluto, era in piedi, esporsi troppo rischiava di essere controproducente. Agire nell’ombra, come una trama occulta, fatta di una e mille P2, fino al momento giusto.

Caduto il muro di Berlino, crollato il blocco comunista, l’accelerazione è stata quasi inarrestabile. La classe politica europea ed italiana, invece di salvaguardare la propria autonomia e farsi argine a questa grande trasformazione, se ne è fatta invece portavoce.

Invece di allearsi con la società, con gli interessi delle cittadine e dei cittadini, delle classi subalterne, come le si chiamava un tempo, i politici hanno voltato le spalle a coloro che avrebbero dovuto rappresentare e si sono adeguati facilmente al conformismo d’ordinanza.

Invece di difendere il principio che una democrazia è tale, se può garantire ai cittadini  libertà di scelta su politiche e progetti di società alternativi, i politici si sono dati alla religione dell’alternanza, ovvero al modo di dire con facce diverse e partiti diversi sempre la stessa cosa. Sbraitavano l’uno contro l’altro a parole, nei talk show, sui giornali, ma in realtà si spartivano solo le briciole di cortigiani dell’economia.

“Ce lo dice l’Europa”, “i mercati ce lo chiedono”, “le riforme chieste dal mercato”, “il debito pubblico ci obbliga”, come un mantra ci ripetevano da tutte le parti sempre la stessa cosa. Da tutti i pulpiti, i grandi stregoni delle società di Rating, di Lehmann Brothers e accoliti emettevano i’ineluttabile responso oracolare: dovete fare le riforme  a noi gradite.

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E la casta politica, quella che ha voltato le spalle alla società, quella che ha preferito veder cadere milioni di cittadini nella religione dell’edonismo individualista e narcisista, piuttosto che lottare, da allora, non ha fatto altro che realizzare il programma dettato dai futuri datori di lavoro. Perché in fondo le briciole non sono poi così terribili, fate quello che vogliamo e poi, un posto lautamente pagato in qualche multinazionale non ve lo nega nessuno. Ecco l’unica cosa che ha cominciato a contare.

Maastricht, l’organizzazione del commercio mondiale, le privatizzazioni, le riforme del lavoro, l’Euro, il Trattato di Lisbona e tutto il resto, ci sono stati imposti non come un’opzione tra altre opzioni, ma come l’unica opzione possibile. Come se questo on bastasse ci hanno detto che la democrazia funzionava solo depotenziandosi, smettendo di essere popolare, aggregativa, di massa.

Trattati ratificati senza previa consultazione popolare, sono divenuti superiori giuridicamente anche alle stesse costituzioni democratiche che dovrebbero essere in democrazia alla base della sovranità popolare. Quando i popoli si sono opposti, li hanno definiti irresponsabili e hanno riproposto la stessa riforma scritta in altro modo.

Parliamoci chiaro la colpa è anche delle cittadine e dei cittadini. Glielo abbiamo permesso, non abbiamo sorvegliato, abbiamo coltivato prevalentemente il nostro interesse, occupandoci del collettivo solo come un problema e mai come un’opportunità. Parliamoci chiaro, molto di quello è accaduto, è stato possibile, solo perché una parte delle nostre società, e si tratta non trascurabile, è incapace di andare oltre il proprio interesse individuale e edonista. Questo è possibile perché per molti, pubblico significa il pubblico al quale mettere in bella mostra il proprio ego, e mai il pubblico come interesse generale e collettivo.

Parliamoci chiaro, la grande alleanza tra Società e Politica per mettere un freno allo strapotere dell’Economia prospettata un tempo da Polanyi, è oggi molto complicata, per non dire quasi irrealizzabile. Ci sono troppi concetti fondamentali per rendere possibile questa alleanza, che suonano oggi come vuote parole per milioni di cittadini delle nostre democrazie sempre più povere e sempre meno democratiche.

Eppure, a volte, come ci ha insegnato Nietzsche, è  proprio sognando l’impossibile, è proprio credendo che esso sia possibile, che la realtà comincia a cambiare.

MARCO INCARDONA

 

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AFFLUENTI IL 26 NOVEMBRE ALLA BIBLIOTECA TORREGIANI ORE 18

Domani saremo alla Biblioteca Torregiani per la prima uscita dell’antologia poetica “Affluenti”. Sarà un’occasione per conoscere non solo gli autori dell’antologia, ma anche per capire la genesi e lo sviluppo di questo progetto di poesia dal “basso” e fuori dai soliti schemi della controcultura imperanti a Firenze. Sarà inoltre l’occasione per conoscere nuovi autori e tutti coloro che vorranno venire e leggere le proprie opere e magari entrare a far parte del nostro progetto collettivo.

Questo lavoro antologico nasce dalla necessità di dare voce alla Firenze poetica di oggi, specchio di una realtà sociale e culturale sempre più cosmopolita.

Caratteristica peculiare di questa raccolta è infatti la forte presenza (non esclusiva), di poeti e poetesse legati/e alla città di Firenze (e dintorni) per motivi di studio/lavoro, migrazione ed esistenza, ma nati/e in contesti diversi da quello del capoluogo toscano.
Le cui vicende e le cui poetiche si incontrano – e spesso si mischiano – da un lato con la storia di Firenze stessa. Dall’altro con le più interessanti voci del vivaio locale attuale, anch’esse presenti in questa selezione.

Nella convinzione che un contesto come quello fiorentino, abbia oggi bisogno di aprirsi tanto a poetiche locali non riconducibili al mainstream, più o meno controculturale. Quanto ai fondamentali apporti che gli possono arrivare, dal potenziale umano “di acquisizione”.

GLI AUTORI E LE AUTRICI PRESENTI:

– Hasan Atiya Al Nassar
– Baret Magarian
– Giovanni Abbate
– Manuela Maria Pană
– Graziella Linardi
– Marco Incardona
– Jonathan Rizzo
– Lorenzo Arcaleni
– Blake Nikolson
– Silvia Frison
– Chiara Ciri
– Luca Buonaguidi
– Massimo De Micco
– Edoardo Olmi

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ABRACADABRA

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Abracadabra. Bella formula, di magica suggestione per le menti più avvezze ai racconti mitici e un po’ esotici provenienti da Oriente. Eppure, mai come oggi, il nostro bel mondo globalizzato avrebbe bisogno di un bel abracadabra che risolvesse tutti i problemi in un colpo solo. Certo un abracadabra di tipo finanziario, formulato nelle mura occulte di una qualche Borsa planetaria, ovviamente con collegamenti segretissimi nelle sedi delle maggiori multinazionali planetarie. Pur tuttavia un abracadabra altamente popolare, dal consenso planetario, un consenso tale da scatenare l’invidia di un qualsiasi uomo politico o personalità pubblica.

Abracadabra? Certo un abracadabra pronunciato con una rotondità di accento tutta hollywoodiana. Ecco quello che ci vorrebbe ormai per salvarci dalla catastrofe mentale in cui siamo sprofondati davanti a questa crisi economica, che è crisi di sistema, di cui siamo attoniti spettatori dall’ormai lontano 2008. Parole grosse ne sono state sparate tante e ripetutamente. “La ripresa è dietro l’angolo”, “il peggio è dietro le nostre spalle”, “la fiducia è ripartita”, “ ci aspettano anni di crescita sostenuta”. Si tratta di balle o se vogliamo di propagandistiche frasi in libertà che farebbero impallidire il più accaniti dei propagandisti della cerchia di Goebbels. Ma gli anni passano, le cose peggiorano e le balle cominciano a sgonfiarsi e a delinearsi per quello che erano sempre state.

In casi come questi, quando la realtà ammutolisce e devasta la visione e la prospettiva, l’uomo sempliciotto, proprio quell’italiano da seconda elementare, tanto caro ai sondaggisti di epoca berlusconiana, ricorre volentieri all’azzardo, ai gratta e vinci, alle lotterie, ai Maghi Anubi o Maghi Otelma. Ve la ricordate Vanna Marchi con la figlia ed il mago Do Nascimento? Sembravano dei ciarlatani e invece dispensavano pillole di gioia in fondo a buon mercato. Con la situazione odierna, nemmeno un congresso mondiale dei maghi ciarlatani planetari potrebbe alimentare il sogno della crescita felice e infinita del turbo capitalismo finanziario.

Che fare? Ovviamente non quello che suggeriva il buon Lenin. Queste cose non ci permetteremmo nemmeno lontanamente di suggerirle alle testoline incapricciate e pronte a selfare a colpi di selfie sulla realtà, piegandola alla volontà totalitaria del consumismo a tutti costi. E quando tra un selfie e l’altro, tra un siamo belli e belle e l’altro, la realtà si palesa per quello che è, ovvero una specie di grande caos in ebollizione, allora l’unico rimedio rimane davvero quello di ricorrere alla formula magica. Qualcuno potrebbe scomodare anche il povero Sovrano del Cielo e della Terra nelle preghiere risolutorie. Ma ormai la sfiducia è tanta, da troppo tempo si è insinuato il dubbio che il ruolo di Dio non possa essere relegato semplicemente a quello di grande Consolatore Megagalattico.

Di fronte alla crisi irreversibile e inarrestabile del capitalismo, una crisi che sarebbe anche troppo facile agganciare ai fatti recenti delle cronache polito-economiche, quello che conta è continuare a far finta di niente. Perché una cosa è assolutamente chiara. Anche se molti consumi sono crollati drammaticamente, il consumismo della mente trionfa nelle nostre vite più tronfio di prima. Non potendosi più concentrare sul numero, ci si concentra oggi sull’oggetto polifunzionale, multi app, l’I-phone, il dispensatore di paradisi senza fine. Caduta dei consumi causata unicamente dalla caduta dai redditi sia chiaro. Nessuno si pone il problema di capire alla radice cosa abbia prodotto una tale improvvisa caduta dei redditi. La nottata passerà prima o poi, basta avere pazienza, basta girare la testa quando qualcuno cade o perde il lavoro intorno a noi. Non bisogna farsi domande troppo radicali, tanto non serve a niente. Vero?

Eppure gli anni passano e le crisi si susseguono ed il mondo incantato dei mutui facili, del mondo globalizzato fatto di servizi e terziario non sembra voler tornare. A forza di guardare in tutti le direzioni pur di non guardare il male alla radice, si è finito per arrivare ad una specie di rincretinimento collettivo sistematico. Sarebbe un capolavoro, sarebbe il sogno propagandistico di un qualsiasi sistema di potere. Peccato che davanti alla crisi sistematica di un sistema totalitario il terreno frana sotto i piedi mentre si danza e si vorrebbe fare feste. Il mondo è proprio cattivo lo so, uno pensa solo al proprio orticello, uno prova ad evitare ogni domanda radicale, ogni dissenso critico, invece poi la realtà, con i drammi dovuti alla sua complessità critica, entra dalla porta di servizio e ci obbliga a costatare che non sempre le cose vanno come nelle pubblicità delle merendine Kinder.

I popoli del turbo capitalismo hanno fatto di tutto per vendersi l’anima al sistema della crescita infinita e ora non sanno davvero come fare di fronte alla fine evidente del sogno. Non occorre nemmeno scomodare Prometeo e miti affini. Basta uscire per strada e camminare tra la gente di un qualsiasi paese a turbocapitalismo avanzato. Lo iato tra quello che una persona è disposta a fare pur di consumare e quello che è disposta a fare pur di pensare è talmente grande, da non lasciare adito a dubbi. Pensiamo volentieri tutto quello che sembra utile, ma fateci vivere bene e al meglio, noi non chiediamo altro.

L’homo consumericus si afferma libero per definizione, ma dietro queste belle intenzioni, si abbandona volentieri al conformismo del dualismo tra bande da studio televisivo. In fondo conformista e pragmatico per prassi profonda, egli si abbandona volentieri alla credenza che la complessità del reale possa davvero appiattirsi alla facile politica della polemica e dei gruppi. Fascisti e antifascisti, democratici e antidemocratici, razzisti e antirazzisti, populisti e riformisti, e in questo modo all’infinito. Una libertà che ama spendersi nella guerra tra bande, nel tamburo battente delle affermazioni eterodirette e del conformismo generalizzato.

Ma una cosa a mio avviso deve essere chiara una volta per tutte. I popoli turbocapitalistici non vogliono capire, vogliono consumare, non vogliono comprendere e controllare il sistema, sono pronti a delegare qualunque cosa pur di poter vivere nei relativi agi del sistema industrializzato avanzato. Anche quando protestano, lo fanno come dei bambini che reclamano con forza il giocattolo che era stato promesso la sera avanti dai genitori. Protestano appunto, non fanno rivoluzioni. Non cercano un mondo diverso, reclamano solo quello che hanno perduto qualche anno addietro. Un mondo in cui tutti si sentivano depressi, ma nel quale in fondo, con qualche droga e qualche psicofarmaco, infarcito di tante belle strisciate di carta di credito, nessuno usciva alla fine con le ossa rotte.

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Basta uscire per strada lo ripeto. Tutto sarebbe come prima se solo queste maledettissime borse non crollassero un giorno sì e l’altro pure, se solo le industrie non chiudessero e le guerre non facessero arrivare disperati a centinaia di migliaia. Di solito, almeno un tempo, quando un sistema non funziona si comincia a pensare se non sia il caso di cambiarlo. Ma questo vale per i prodotti del sistema capitalistico, non per il sistema in sé. Il capitalismo ed i suoi strumenti sono immanenti, non sono nemmeno più il risultato del trionfo del Progresso. Quando si parla di Progresso si deve avere un pensiero, discutibile quando si voglia, ma pur sempre un pensiero. In questo caso il pensiero è bandito. Basta credere ciecamente nel concetto dell’eterno ritorno dell’identico capitalista. Mi si perdoni l’allusione nietzschiana.

Sarebbe inutile quindi mettere in evidenza le aporie dell’ideologia turbocapitalista. Ideologia della crescita infinita in un mondo che non cresce più. Ma questo non conta, i popoli non sono disposti a guardare in faccia alla realtà. Hanno fatto di tutto per deresponsabilizzarsi, hanno accettato supinamente qualunque cosa. Vogliono consumare, non vogliono lottare. Chi lotta lo fa perché prima ha capito in quale situazione di “oggettivo” sfruttamento o ingiustizia si trovava. Chi lotta è obbligato a pensare il cambiamento, la trasformazione attiva dell’esistente. Chi consuma, pensa e usufruisce del già dato, del già prodotto. Chi consuma rifiuta e ripudia come ignobile l’avventurismo del pensiero.

Oggi sembra cadere la Cina, domani sarà l’Australia o il Canada. Vivremo un ottobre caldissimo, con nuove crisi economiche c’è da esserne sicuri. Ma nulla accadrà oltre la supina accettazione di quello che ci viene propinato come crisi finanziaria. Crisi del sistema non è mai in questione. Pensarlo sarebbe trovare il fil rouge che unisce crisi finanziarie, crisi del debito, crisi delle industrie, guerre, terrorismi e via dicendo. Ma quando la realtà ci costringe ad arrivare alla porta delle sue contraddizioni, invece di varcare la porta e vedere il sistema in caduta libera, un’altra è la pratica diffusa, una pratica che ora svelo ai quattro venti. Tanto si tratta di un segreto di pulcinella.

Davanti alla porta basta voltarsi indietro, chiudere gli occhi e pronunciare la formula magica. Abracadabra e tutto torna come prima, quando i mutui erano facili e le vacanze duravano un mese. Amen.

MARCO INCARDONA

 

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UN PASSO TRATTO DA “DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO” DI HORKHEIMER E ADORNO

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Gli uomini si distanziano col pensiero dalla natura per averla di fronte nella posizione in cui dominarla. Come la cosa, lo strumento materiale, che si mantiene identico in situazioni diverse, e separa cosi il mondo – caotico, multiforme e disparato – da ciò che è noto, uno ed identico, il concetto è lo strumento ideale, che si apprende a tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare. Come del resto il pensiero diventa illusorio, appena vuol rinnegare la funzione separante, distacco e oggettivazione. Ogni unìo mystica rimane inganno, la traccia interiore e impotente della rivoluzione mercanteggiata. Ma se l’illuminismo ha ragione contro ogni ipostasi dell’utopia e proclama impassibile il dominio come scissione, la frattura tra soggetto e oggetto, che esso vieta di colmare, diventa l’index della falsità propria e della verità’. La condanna della superstizione ha significato sempre, insieme al progresso del dominio, anche lo smascheramento del medesimo. L’illuminismo è più che illuminismo; natura che si fa udire nella sua estraniazione. Nella coscienza che lo spirito ha di sé come natura in sé scissa, è la natura che invoca se stessa, come nella preistoria, ma non più direttamente col suo nome presunto, che significa onnipotenza, come mana, ma come qualcosa di mutilo e cieco. La condanna naturale consiste nel dominio della natura, senza il quale non ci sarebbe spirito. Nell’umiltà con cui esso si riconosce dominio e si ritratta in natura, si scioglie la sua pretesa di dominio che è proprio quella che lo asserve alla natura. Anche se l’umanità non può fermarsi nella fuga davanti alla necessità – nella civiltà e nel progresso – senza rinunciare alla conoscenza stessa, essa almeno non vede più, nei valli che erige contro la necessità (le istituzioni, le pratiche del dominio, che dall’asservimento della natura si sono sempre rivolte contro la società), i pegni della libertà futura. Ogni progresso della civiltà ha rinnovato, col dominio, anche la prospettiva di placarlo. Ma mentre la storia reale è intessuta di sofferenze reali, che non diminuiscono affatto in proporzione all’aumento dei mezzi per abolirle, la prospettiva, per realizzarsi, può contare solo sul concetto o. Poiché esso non si limita a distanziare, come scienza, gli uomini dalla natura, ma come presa di coscienza di quello stesso pensiero che – nella forma della scienza – rimane legato alla cieca tendenza economica, permette di misurare la distanza che eterna l’ingiustizia. Mercé questa anamnesi della natura nel soggetto, nel compimento della quale è la verità misconosciuta di ogni cultura, l’illuminismo è, in linea di principio, opposto al dominio, e l’invito a fermare l’illuminismo echeggiò, anche ai tempi di Vanini, meno per timore della scienza esatta che in odio al pensiero indisciplinato che si libera dall’incantesimo della natura, in quanto si riconosce come il suo stesso tremare davanti a se stessa. I preti hanno sempre vendicato il mana sull’illuminista che lo conciliava provando orrore dell’orrore che recava quel nome, e gli àuguri dell’illuminismo furono solidali nella hyhris coi preti. L’illuminismo borghese si era arreso al suo momento positivistico molto tempo prima di Turgot e d’Alembert. Esso fu sempre esposto alla tentazione di scambiare la libertà con l’esercizio dell’autoconservazione. La sospensione del concetto, che avesse luogo in nome del progresso o in quello della cultura, che si erano già segretamente accordati da tempo contro la verità, ha lasciato libero il campo alla menzogna. Che – in un mondo che si limitava a verificare protocolli e a custodire l’idea, degradata a «contributo» di grandi pensatori, come una sorta di slogan invecchiato – non si lasciava più distinguere dalla verità neutralizzata a «patrimonio culturale». Ma riconoscere il dominio, fin addentro al pensiero, come natura inconciliata, potrebbe smuovere quella necessità, di cui lo stesso socialismo ha ammesso troppo presto l’eternità in omaggio al common sense reazionario. Elevando la necessità a «base» per tutti i tempi avvenire, e degradando lo spirito – alla maniera idealistica – a vetta suprema, esso ha conservato troppo rigidamente l’eredità della filosofia borghese. Cosi il rapporto della necessità al regno della libertà resterebbe puramente quantitativo, meccanico, e la natura, posta come affatto estranea, come nella prima mitologia, diventerebbe totalitaria e finirebbe per assorbire la libertà insieme col socialismo. Rinunciando al pensiero, che si vendica, nella sua forma reificata – come matematica, macchina, organizzazione – dell’uomo immemore di esso, l’illuminismo ha rinunciato alla sua stessa realizzazione. Disciplinando tutto ciò che è singolo, esso ha lasciato al tutto incompreso la libertà di ritorcersi – da dominio sopra le cose – sull’essere e sulla coscienza degli uomini. Ma la prassi che rovescia ‘ dipende dall’intransigenza della teoria verso l’incoscienza con cui la società lascia indurirsi il pensiero. A rendere diiBcile la realizzazione non sono i suoi presupposti materiali, la tecnica scatenata come tale. Questa è la tesi dei sociologi, che cercano ora un nuovo antidoto, magari di stampo collettivistico, per venire a capo dell’antidoto \ Responsabile è un complesso sociale di accecamento. Il mitico rispetto scientifico dei popoli per il dato che essi producono continuamente finisce per diventare, a sua volta, un dato di fatto, la roccaforte di fronte a cui anche la fantasia rivoluzionaria si vergogna di sé come utopismo e degenera in passiva fiducia nella tendenza oggettiva della storia. Come organo di questo adattamento, come pura costruzione di mezzi, l’illuminismo è cosi distruttivo come affermano i suoi nemici romantici. Esso perviene a se stesso solo denunciando l’ultima intesa con essi e osando abolire il falso assoluto, il principio del cieco dominio. Lo spirito di questa teoria intransigente potrebbe invertire, proprio alla sua meta, quello inesorabile del progresso. Il cui araldo, Bacone, ha sognato delle mille cose «che i re con tutti i loro tesori non possono acquistare, su cui la loro autorità non comanda, di cui i loro emissari e informatori non dànno loro notizie». Come egli si augurava, esse sono toccate ai borghesi, agli eredi illuminati dei re. Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c’è più bisogno, per amministrarle, non solo dei re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono, dal potere delle cose, a fare infine a meno del potere. L’illuminismo si compie e si toglie, quando gli scopi pratici più prossimi si rivelano come la lontananza rag- ‘ [Umwälzende Praxis]. ‘ «The supreme question which confronts our generation today – the question to which all other problems are merely corollaries – is whether technology can be brought under control… Nobody can be sure of the formula by which this end can be achieved… We must draw on all the resources to which access can be had… » (The Rockefeller Foundation, A Review for 1943, New York York) giunta, e le tetre «di cui i loro emissari e informatori non danno loro notizie», e cioè la natura misconosciuta dalla scienza padronale, sono ricordate come quelle dell’origine. Oggi che l’utopia di Bacone – «comandare alla natura nella prassi» – si è realizzata su scala tellurica, diventa palese l’essenza della costrizione che egli imputava alla natura non dominata. Era il dominio stesso. Nella cui dissoluzione può quindi trapassare il sapere, in cui indubbiamente consisteva, secondo Bacone, la «superiorità dell’uomo». Ma di fronte a questa possibilità l’illuminismo al servizio del presente si trasforma nell’inganno totale delle masse.

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MARCO MEZZETTI PARLA DEL SUO LIBRO SU CARLO PIAGGIA

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Eccomi, finalmente, a cogliere l’invito dell’amico scrittore Marco Incardona, con cui mi complimento per il suo bellissimo blog letterario e lo ringrazio per questa recensione del mio libro, che vedo scritta con sincera passione. Mi compiaccio nel constatare che anche Marco è rimasto affascinato da Carlo Piaggia, e in effetti è quasi impossibile non innamorarsi di questo straordinario personaggio, del suo immenso spirito di libertà in un secolo di schiavitù, della sua assoluta spregiudicatezza in un’epoca viziata dal pregiudizio e dalla superbia etnocentrica degli europei e nordamericani. E in questo aspetto del suo carattere fu sicuramente aiutato dalla sua “toscanità”, dalla sua pacata saggezza di fattore, uomo rurale delle nostre terre, non accademico ma uomo del popolo. Sebbene la sua istruzione fosse soprattutto da autodidatta, il suo contributo scientifico non fu da poco, basti pensare che il nucleo centrale della collezione africana del Museo fiorentino di Antropologia in via del Proconsolo è ancor oggi la collezione Piaggia. Ma il dono più grande che ci ha fatto è il suo magnifico esempio di umanità, di apertura mentale, di voglia di confrontarsi da pari a pari con il diverso, con lo straniero, con la consapevolezza che il confronto è sempre un’occasione per imparare, un’opportunità di arricchimento reciproco. E tutto ciò è quanto mai attuale, oggi, quando è il “diverso” che bussa drammaticamente alle porte delle nostre case, chiedendo aiuto.

Eppure, chi è controcorrente e avanti coi tempi è sempre osteggiato, si sa, e a Piaggia non fu risparmiata analoga sorte. I suoi scritti sono rimasti silenti per un secolo e mezzo, custoditi nell’archivio di Stato di Lucca, prima che qualche paziente studioso li ricercasse e li riportasse alla luce. Ed io sono onorato di aver dato il mio piccolo contributo, con questo libro.

E, prima di accomiatarmi da questa pagina, siccome quando si parla di Piaggia non si finirebbe mai di narrare, vorrei donarvi quest’ultima storia inedita. Molti amici mi hanno chiesto come mai Carlo Piaggia non tornò mai dai suoi amici Azande e dalla sua amata principessa Mambia. Anche per me era un mistero, finché non sono venuto a sapere che, in epoche recenti, due ricercatori della Hakluit Society (una vecchia società geografica inglese) hanno riscoperto il diario del viaggiatore olandese Juan Maria Schuver, che fu l’ultimo a incontrare Piaggia prima della sua scomparsa, e lo hanno pubblicato.

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Marco Mezzetti

Scrissi dunque alla Hakluit e comprai una copia del diario, ed è con grande emozione che vi lessi questa annotazione, che vi riporto qui, traducendola dall’inglese:

……. <<Nel Sennar incontrai Piaggia, il vecchio viaggiatore dell’Africa, di rientro da uno sfortunato tentativo di penetrare nell’interno per la via di Fadasi, che non era riuscito a raggiungere, ma fu costretto a tornare a Beni Shangul. L’età, il cattivo stato di salute, la mancanza di anche un solo valido aiutante e l’insufficienza di mezzi erano la sola ragione per cui questo meritevole viaggiatore ebbe a soffrire una così cattiva sorte. Era uno spettacolo che faceva stringere il cuore, vedere quest’uomo, che avrebbe potuto ancora compiere grandi imprese se solo avesse ricevuto un’assistenza un po’ meno avara dalla sua madrepatria, terminare la sua lunga carriera con un échec, e mi offrii di riportarlo indietro. Ma, seppur augurandoci ogni miglior fortuna per il nostro viaggio, egli era troppo affranto dal proprio fallimento per tornare sui suoi passi (e dovemmo quindi scambiarci i nostri lacrimevoli addii, pensando che non ci saremmo mai più rivisti)………>>

Triste constatarlo ma, allora come oggi, il nostro Paese ha sempre dato poco agli uomini di valore, e troppo ai raccomandati. Oggi come allora, una storia italiana che si ripete…..

Marco Mezzetti

 

“VAR” Di Saša Stojanović

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In diverse occasioni, il critico Maurizio Grande ebbe modo di scrivere e affermare pubblicamente che, per sua stessa natura, gli spettacoli di Carmelo Bene non potevano in alcun modo essere recensiti, ma dovevano, o semplicemente essere  presentati con poche parole, oppure essere fatti oggetto di uno studium approfondito e esaustivo.

Fatte le debite differenze, si potrebbe davvero dire la stessa cosa “Var” romanzo Saša Stojanović, edito dalla Ensemble di Roma nel 2015. Un libro, complesso, stratificato, a tratti impossibile da cogliere nella sua essenza, quasi enigmatica.

Quando un anno fa ebbi modo di conoscere il suo autore, al Pisa Book festival del 2015, capii subito che ci si trovava di fronte ad un libro destinato a divenire un “classico”. Lessi per la prima volta il romanzo, per altro lungo e serrato, e lo feci à bout de souffle, lasciandomi trasportare dal fiume in piena di parole, di punti di vista di affermazioni quasi incontrollabili. Era l’unico modo per leggerlo, per farlo la prima volta, senza cadere nella facile retorica dell’elogio per l’elogio. Riposi il libro e lo lasciai lievitare dentro di me, come si fa con le cose che meritano, che meritano la patina del tempo a mediare, a smussare gli angoli della routine editoriale, a far emergere poco a poco quello che conta, il senso profondo di questo testo straordinario per molti versi.

Durante questo anno ho letto, ho studiato spesso e volentieri quelle suggestioni fugaci e profondissime che la prima lettura mi aveva stimolato. Ho ristudiato gli gnostici, ho riletto i vangeli, ho letto testi di religione, testi di critica letteraria, ho riletto diversi classici direttamente citati nel libro.

Era doveroso e credo sia la cosa più bella che un libro possa stimolare in un lettore: indurre a leggere altri libri.

Dopo un anno ho dunque infine deciso di rileggere “Var” e di farlo con la coscienza che forse molte di quelle prime impressioni sarebbero svanite e che, forse, ne sarebbero sorte di altre.

Perché, questo è bene saperlo, “Var” è un libro crudo, impietoso, per certi versi senza appigli. In questa descrizione della realtà così impietosa, il lascito dello gnosticismo sembra non solo evidente, ma quasi essenziale. Anche l’ironia, quella sottile ironia balcanica, talvolta così difficile da comprendere per il lettore italiano, è sempre al limite di soccombere davanti alla desolata narrazione dei fatti. Stojanović, durante tutto il corso del romanzo, si dimostra essere uno scrittore formidabile, abilissimo nel cambio dei registri narrativi, nell’uso di linguaggi diversi e intrecciati abilmente, sottilissimo nell’instaurare una profonda dialettica tra una forma assolutamente post-moderna e un contenuto per nulla post-moderno.

Per tutti coloro che sono interessati, esistono bellissime recensioni del libro e interviste dell’autore, basta cercarle per scoprire che “Var” è un libro che parla ovviamente di Guerra, della guerra in Kosovo per l’esattezza. Un libro che parla di guerra in una terra martoriata da conflitti etnici continui e quasi incessanti. Non poteva che essere così, verrebbe da dire, perché le guerre sono tragedie collettive di una tale entità da marcare per generazioni e generazioni le coscienze degli abitanti dei luoghi in cui sono scoppiate.

Ma non è quello che mi preme sottolineare in questa occasione, lo ripeto, esistono recensioni e interviste che possono spiegare perfettamente di cosa parla il libro e come ne parla. Quello che mi preme assolutamente dire, è che Stojanović è riuscito a trascendere i confini del romanzo di guerra, e fare del suo “Var” un’opera oserei dire universale, capace di stimolare la riflessione, più che la compassione, lo sdegno etico, più che il rifiuto morale. Nel mezzo tra “la montagna incantata” di Mann e “Il buon soldato Sveik” di Hašek, “Var” è un romanzo destinato a durare, a restituire il clima collettivo di disorientamento che coglie l’umanità all’inizio di questo nuovo millennio.

Leggendolo, si è colti da una vertigine di profondo sgomento, mitigato solo in parte dall’acuta capacità dell’autore di ironizzare sugli eventi, di dissacrarli in nome dell’assurdo. A volte, presi dallo sconforto, si vorrebbe un approdo, un momento da happy ending da film hollywoodiani, ma “Var” non è libro per questo genere di cadute di tono e di pause narrative. Ciò che mitiga il dramma della guerra è l’assurdo della guerra, quel che occlude la cattiveria umana, è la stupidità umana, Stojanović non cerca facili soluzioni e tanto meno vuole consegnarcele come un qualsiasi prodotto da supermercato. Attraverso il postmoderno egli è capace di smontare e di svelare la pretesa ideologica del tempo post-moderno. E dietro, come un nuovo palcoscenico che si apre schiudendo le tende di quello precedente, ecco l’assurdo, il dramma del vuoto, l’inutilità della parola.

Lo scrittore serbo, quasi spinto da un furore mistico, spinge impavidamente la lingua verso il_racconto_della_guerra_in_kosovo_var_di_sasa_stojanovic2il suo limite. Realizzandola e celebrandola con arte maestra, finisce per metterne al contempo in luce i suoi limiti, la sua incapacità di svelare un senso oggettivo valido per tutti, capace di emergere, come la voce kantiana, nel momento in cui tacciono  delle passioni. Perché per Stojanović le passioni non tacciono mai, sono sempre in allerta per impedire alla lucida razionalità di guardare i fatti nudi, ma soprattutto di guardare anche più in là dei nudi fatti. Egli non ha paura di mettere alla berlina la scrittura, mostrandone i limiti costitutivi e questo non solo davanti all’immane tragedia della guerra, ma anche di fronte all’enigma sempre più assurdo dell’esserCi, dell’essere al mondo di heideggeriana memoria.

“Var” è un libro importante, perché è un libro ambizioso, scritto da uno scrittore maturo e capace di parlare con i classici e non di liofilizzarli in sterili celebrazioni. Quello che conta nella sua ricerca è la ricerca dell’essenza profonda delle cose, del loro senso più pieno. Forse, è anche per questo, che questo libro è allo stesso tempo tanto scandaloso, tanto irriducibilmente inaccettabile. Esso ci impone di trovare il senso delle cose su un piano diverso, più profondo rispetto a quello al quale siamo abituati. Esso ci impone l’obbligo di porci il dubbio che forse un senso nemmeno esista e che la sua ricerca sia vana, oltreché insensata.

Dice uno dei personaggi del libro, uno di quelli chiamati a dare testimonianza della vita in guerra del personaggio principale Carli, ovvero l’alter ego dello scrittore stesso:

“Che cazzo ci faccio qui? è una domanda fratelli destinata a  rimanere senza una risposta sensata! credetemi! me lo chiedo spesso e chissà, capiterà anche a voi di domandarvelo”.

Il senso appunto. Tutta la religione cristiana si è occupata di recuperare il senso dal dramma dell’uccisione del Salvatore. Il senso era nell’avvento, nella resurrezione, nel destino scritto nel disegno divino, il senso era nel sacrificio, nella redenzione dei peccati dell’umanità. L’avvento del Cristo è la plastica simbolizzazione del senso della vita e ne diviene uno spartiacque ineludibile.

 

Nel nostro romanzo i quattro evangelisti più Maria di Magdala e Giuda sono giunti nel nostro tempo per capire se una verità può esserci nel nostro tempo, qual è la verità della Guerra in Kosovo. Sono giunti per indagare su Carli e per sapere se è possibile rintracciare un senso più generale a partire dal suo comportamento durante la guerra.

Ma Carli non è il Cristo, e la guerra in Kosovo non è una parabola evangelica. Gli indagatori non potranno che fallire nel loro compito e finiranno per impantanarsi in una rete fittissima di eventi raccontati in maniera assurda, a tratti incomprensibile. Le persone che parlano di Carli non costruiscono un  senso, al contrario lo allontanano per sempre.

Come un retrogusto amaro ma preesistente, a prevalere durante tutto il romanzo, è la sensazione di assoluta banalità delle cose, o meglio della loro implacabile banalizzazione. Colpisce questo abissale atto d’accusa al genere umano proprio per la sua drammatica radicalità. Lascia pensare alle pagine più amare di Gunther Anders.

Apparati tecnici e leggi morali impersonali ma plasmabili a uso personale, diventano gli incontrastati padroni delle nostre coscienze e finiscono per annichilirle completamente.

“Var” è un pugno ben assestato dritto allo stomaco, uno di quelli che tramortisce e fa immediatamente cadere al suolo. Un libro che graffia con artigli affilati, un libro che fa male.

In alcune pagine, dove gli eventi drammatici della guerra, sono descritti come fatti assurdi e quasi comici, se non si trattasse di una guerra appunto, viene voglia di prendere il libro e scaraventarlo contro il primo specchio in cui ci si imbatte, viene voglia di urlare con tutta la forza possibile, no noi siamo così, non siamo solo questo, non possiamo essere solo questo.

“Fatti non foste a viver come bruti”, verrebbe da dire pensando a Dante. Ma in “Var” la brutalità dei fatti raccontati, non fa dei personaggi per questo dei bruti. Sarebbe in fondo un senso, una spiegazione, una traccia per comprendere.

Ma davanti al libro di Stojanović tutto rischia di diventare vuota formula, perché se “Var” è un libro non-recensibile, è ancor di più e a maggior ragione un libro per nulla neutralizzabile con facili formule consolatorie.

Leggerlo è duro, eppure necessario. Come è necessario a volte guardare l’orrore dritto negli occhi, perché solo in quel modo, sarà un giorno possibile andare finalmente oltre. Ma lo avrete capito, Stojanović non è un mercante di speranze a buon mercato e fa bene ad esserlo. Di sicofanti agiografici e venduti al sistema ne abbiamo fin troppi, invece di scrittori come lui ne abbiamo pochissimi.

 

Marco Incardona

 

FARE CAMPAGNA REFERENDARIA NELLA PATRIA DEL RENZISMO

Fare attivamente campagna referendaria a Firenze, nella patria del renzismo, tra la gente, nei gazebo, nei mercati, nei rioni, nelle piazze turistiche è davvero come stare in trincea.
A volte non è facile accettare il netto diniego, quasi sprezzante, di persone che ti fanno gesti irrispettosi, dopo che hai lavorato la notte e che sei corso a volantinare, ma è sempre bello vedere e sentire l’affetto di persone che ti stanno vicino con un sorriso, anche solo due chiacchiere, a volte con un semplice accenno della mano.
Ma qui è dura. Decenni e decenni di interessi incancreniti si toccano con mano, si percepiscono nell’aria come una tremenda spada di Damocle che incombe su molti cittadini spaventandoli, obbliagandoli a un rifiuto quasi irrazionale al dialogo, al confronto, alla remota idea di poter anche cogliere del buono nelle idee dell’altro. Noi non diciamo Basta un sì. nel nostro caso basta un no, noi non invitiamo a deresponsabilizzarsi cliccando, delegando ad altri oggi il voto, domani il senato, dopodomani la sovranità monetaria e in futuro probabilmente tutto. No, noi invitiamo le cittadine ei cittadini ad avere coscienza, a riflettere profondamente sui temi in questione e a formulare in coscienza un secco IO DICO NO, ovvero il no di un cittadino attivo e consapevole che non vuole farsi privare del diritto di voto in in nome di presunti miglioramenti di efficacia per l’esecutivo.
Ma non è facile, vi assicuro, soprattutto qua a Firenze…
Basta un nulla e si viene tacciati di ingenui, di comici, di inesperti.

Mi piacerebbe essere comico, sicuramente vorrei essere ironico, probabilmente sarei felice di poter mantenere quel giusto grado di ingenuità che serve a restare umani e sinceri, ma con certezza assoluta posso dichiarare ai quattro venti di essere inesperto.

E’ vero, sono inesperto, sono un semplice cittadino che ha deciso di impegnarsi, non conosco i rodaggi del potere, le pastoie tremende delle partecipate e forse non conosco nemmeno i regolamenti comunali.
Facevo altro, lavoravo, studiavo, scrivevo e se mi sono impegnato è solo perché non vedo altra scelta per la democrazia che rimanere partecipata e aggregativa. Non vedo altra scelta che questa per salvare davvero al democrazia nella essenza, pre renderla davvero sostanziale e popolare e non performativa, come vorrebbero i poteri transnazionali.
Non sono il migliore, non mi sento il migliore, non ho da fare nessuna morale a nessuno, ci metto solo la faccia, l’entusiasmo, la voglia di mettermi al servizio, l’impegno di voler fare qualcosa per la collettività.
Non ho e non abbiamo la bacchetta magica, non ho e non abbiamo les slides magiche, non ho e non abbiamo i programmi da milioni di posti lavoro, sono solo un cittadino che prova a cambiarsi cambiando le storture della società.
Non voglio essere ora il migliore, non ho nessun pulpito dal quale emettere sentenze, sono solo una persona che ha voglia di migliorarsi, ha voglia di imparare e provare a farlo con onestà e coerenza.
Sono limitato, lo so, me nerendo conto, per questo vi chiedo PUBBLICAMENTE DI DARMI UNA MANO E DI DARCI UNA MANO, perché solo insieme possiamo migliorare questa società.
Statemi vicino, non fateci sentire mai soli, mai isolati e circondati dai volponi delle pastoie politiche e di potere, abbiamo bisogno sempre di voi e vogliamo sempre e comunque stare dalla parte dei cittadini.
Il 27 novembre Alessandro Di Battista sarà in piazza tra noi a Firenze e ci parlerà della Costituzione, ma anche dei nostri progetti e anche dei limiti di essere cittadine e cittadini come voi.
Se staremo tutti insieme forse non diventeremo subito i migliori, ma certamente non avremo più padroni, signori, potenti che ci fanno la morale dall’alto e che ci trattano come dei cretini ignoranti. Insieme ce la faremo.
IO VOTO NO

RIMANE SOLO IL MOVIMENTO CINQUE STELLE PAROLA DI MASSIMO CACCIARI

L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America dovrebbe aver definitivamente scosso diverse coscienti benpensanti. Almeno quelle genuine, quelle disposte a comprendere la natura dei fenomeni sociali e storici da un punto di vista davvero razionale e non interessato.

Purtroppo e non merita nemmeno scomodare Schopenhauer o Max Stirner per comprendere che invece, nella maggior parte dei casi, a prevalere è sempre e comunque l’interesse privato ammantato di belle parole, di slogan ideologici e inefficaci.

Ma talvolta ci sono delle voci fuori dal coro che vanno non solo apprezzate, ma riconosciute e ringraziate per il coraggio di esprimere apertamente un giudizio fuori dal coro.

Tra costoro possiamo sicuramente annoverare il filosofo Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia e in rotta di collusione progressiva ma inesorabile con il suo partito di appartenenza, il PD-PiDduista a gestione di Matteo Renzi.

In una recente intervista rilasciata al Fatto Quotidiano, il filosofo tornando sulla  elezione di Trump, ha provato a spiegare le ragioni profonde di una vittoria per tanti versi inaspettata e inquietante.

Nella democrazia partecipativa a suffragio universale, che non è oligarchia di pochi gruppi, ma partecipazione di masse popolari e stratificate, non importa se più o meno coscienti, non importa se ridotta ai soli tornanti elettorali oppure a un impegno quotidiano, la politica deve mettere al centro del proprio agire una strategia capace di dare effettiva risposta alle inquietudini più profonde di tutte le classi sociali, sotto pena di perdere la sua fondamentale caratteristica di mediazione tra Stato e Società.

Le crescite economiche o le crisi economiche, le manipolazioni mediatiche, le propagande becere, possono certo allontanare le masse dalla politica, possono dirottarle su falsi problemi, ma alla lunga non possono nulla contro le esigenze profonde della vita delle persone che sono lavoro, sicurezza sociale e possibilità di progettare un futuro per la propria famiglia.

Quando la politica democratica invece di combattere contro le storture del capitalismo per assicurare queste esigenze basilari della cittadinanza, si fa al contrario portavoce assoluto dei potentati economici, allora il baratro che si apre tra Stato e Società, rischia di sfociare nelle peggiori forme antidemocratiche.

Questo non ce lo insegnano gli slides del Presidente del Consiglio ma la storia, la storia di questo Continente, già abbastanza martoriato per non inquietare ancora una volta.

Dice Cacciari:

“La moltiplicazione delle ingiustizie e delle diseguaglianze; il crollo del ceto medio; lo smottamento della tradizionale base operaia; l’incapacità di superare lo schema di welfare basato sulla pressione fiscale. Oggi l’unico sindacato che conta è quello dei pensionati e a mano a mano che si pensionavano i genitori sono emersi i figli precari, i figli pagati con il voucher, i figli ancora a carico della famiglia.”

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Questo fondamentale ruolo della politica è stato del resto sempre al centro della riflessione politologica di Cacciari. Egli fu il primo a vedere nella Lega un movimento in grado di cogliere al Nord gli umori profondi degli strati più deboli della società di fronte da una parte all’avanzata di una globalizzazione selvaggia e dall’altra del ritiro della politica su posizioni internazionaliste e neo-oligarchiche.

Nel 1989 cadeva il Muro di Berlino, il secolo breve di cui ci ha parlato Hobsbawn, finiva in maniera drammatica, lasciandoci il posto non certo ad un tempo post-moderno e post-ideologico, quello raccontatoci dalla propaganda ufficiale, ma al tempo del pensiero unico e dell’ideologia unica.

1993 trattati di Maastricht, 1994 costituzione del WTO, assimilazione di Cina e paesi del blocco sovietico nel sistema di commercio mondiale, il capitalismo finanziario partiva in questo modo all’assalto del mondo, dando il via ad una circolazione di capitali pazzeschi e fuori controllo da parte dei governi democratici.

Risultato?

Deindustrializzazione di vaste aree dei paesi ricchi, precarizzazione del lavoro laddove esso rimaneva, compressione dei salari e terziarizzazione dei servizi grazie alla rivoluzione tecnologica tuttora in corso.

In barba ad ogni controllo democratico, multinazionali, lobbies e consorterie mafiose hanno imposto ai governi politiche economiche liberiste e atte a favorirle in tutti modi. Mentre un povero artigiano pagava tasse disumane e veniva tacciato di evasore se non riusciva a farlo o non voleva farlo, le multinazionale non solo non pagavano tasse o le pagavano in forma irrisoria, ma godevano anche di incentivi di Stato ingenti pressoché a fondo perduto.

Mentre il lavoro andava altrove, questo altrove, sotto forma di mlioni di emigrati economici, veniva nei paesi ricchi o ex tali in cerca di condizioni di lavoro migliori, comprimendo ulteriormente i salari e portando avanti una guerra tra poveri lacerante e pericolosa.

La sinistra non solo ha disatteso il suo compito storico di rappresentare gli interessi sociali e politici delle parti più deboli e soggette a pagare tutti i rischi di una globalizzazione selvaggia, ma si è fatta addirittura espressione più convinta di quei processi, illudendosi di guidarli in nome di una fantomatica TERZA VIA. Solo che non solo allora come oggi tertium non datur, ma la possibilità stessa della sinistra storica come opzione politica credibile è finita per inficiarsi quasi definitivamente.

Le porte dopo le elezioni di Trump sembrano definitivamente spalancarsi per inquietanti soluzioni e svolte razziste e autoritarie.

In Italia, oggi, esiste solo il Movimento Cinque Stelle a rappresentare un argine da una parte contro la deriva oligarchica della casta politica e dall’altra contro il rischio di derive autoritarie e apertamente razziste.

Questo Movimento deve certamente crescere, aumentare in consapevolezza e forse anche in ambizione, ma rappresenta la sola forza in campo capace di basarsi su un consenso popolare diffuso e aggregativo dal basso, la sola forza capace di mettere davvero le persone al centro della politica. In fondo anche le contraddizioni che vengono imputate al Movimento, sono conseguenza di questo sua natura popolare, partecipativa e genuinamente democratica.

Il Movimento Cinque Stelle è l’unico a non speculare sulla guerra tra poveri che vorrebbe buonisti da una parte e razzisti dall’altra, è l’unico a pensare la sicurezza come un bene comune irrinunciabile, esattamente come un reddito di cittadinanza capace di rendere le cittadine e i cittadini meno ricattabili davanti allo strapotere delle oligarchie economiche, è l’unico a mettere in discussione non solo la politica dell’immigrazione dei governi europei, ma tutta la loro strategia di politica estera imperialista e spesso guerrafondaia.

Solo il Movimento Cinque Stelle può rappresentare e costruire un’alternativa credibile, democratica e popolare contro le derive autoritarie di stampo oligarchico o razzistoide, rimettendo al centro i cittadini e le cittadine di questo Paese.

Grillo non fa parte di questa destra cattiva. Ho scritto un articolo su chi saranno i Trump d’Europa e concludo proprio così: in Italia non resteranno che i Cinquestelle.”.

Parola di Massimo Cacciari.

Una sola rettifica: In Italia il Movimento Cinque Stelle è già ora l’unica opzione credibile per cambiare davvero e salvare la democrazia partecipativa.

Marco Incardona

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LO SCRITTORE E POETA RUMENO TUDOR ARGHEZI

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Giovanni Abbate profondo conoscitore della cultura e della letteratura rumena mi invia questo articolo sullo scrittore e poeta Tudor Arghezi.

Lo pubblico con estremo piacere e lo ringrazio per il suo contributo al blog.

Tudor Arghezi (21 maggio 1880, Bucarest – 14 luglio 1967, Bucarest) è stato un poeta, romanziere e giornalista romeno. Ha scritto poesia, teatro, prosa e racconti per bambini. Dopo aver terminato il liceo “Sfantul Sava” di Bucarest, Arghezi si trasferisce a Ginevra, dove scrive poesie, frequentando corsi universitari. Ritornando in Romania inizia a pubblicare versi, opuscoli e diversi articoli polemici. Nel 1918, durante la realizzazione della Grande Romania, è stato chiuso per due anni in prigione, a Vacaresti, insieme ad altri 11 giornalisti e scrittori, venne accusato di tradimento, perché si era pronunciato per la neutralità della Romania. Nel 1927 appare il suo primo libro di poesie “Accordi di parole “e nel 1928, sotto la sua direzione esce il giornale “Biglietti di pappagallo”. Nello stesso anno pubblica il volume di prosa per i bambini “Il libro giocattolo” e i libretti di poesie “Fiori di muffa” e “La porta nera”, dove racconta gli anni di detenzione. Altri volumi di poesia pubblicati: “Libriccino per la sera”, 1935; “Girotondo”, 1939; “Canto all’uomo”, 1956; “Foglie”, 1961; “Buon giorno primavera”, 1965; “Ritmi”, 1966 e opere in prosa pubblicate: “Icone su legno”,1930; “Cimitero dell’Annunciazione”, 1936; “Pagine del passato”, 1955; “Mondo vecchio Mondo nuovo”, 1956; “Con un bastone da passeggio attraverso Bucarest”, 1961. Nel 1943, sotto il titolo del quotidiano ”Biglietti di pappagallo” pubblica un pamphlet antifascista intitolato “Il barone”, attaccando l’ambasciatore tedesco von Kilinger. Il giornale verrà chiuso dalla censura e lo scrittore sarà incarcerato per un anno in prigione a Bucarest e Targu Jiu. Nel 1948 Arghezi si ritirerà dalla vita pubblica, nella sua casa a Martisor. Per la sua notevole attività letteraria gli sono stati assegnati vari premi, tra cui il Premio Internazionale Johann Gottfried von Herder e il Premio Nazionale per la Poesia. Tudor Arghezi ha rivoluzionato il linguaggio poetico e ha creato una nuova “bruttezza estetica “ con la quale ha cercato di evidenziare le imperfezioni della vita, scriveva:” Ho fatto dagli stracci dei boccioli e delle corona,/Il veleno stinto l’ ho cambiato in miele/Lasciando tutto il suo dolce potere”.Nel volume di poesia “Fiori di muffa” presenta la visione esatta dall’inferno vissuto in galera, dove era costretto a sopprimere la sua grande sete di comunicazione. Qui l’autore ha trovato la capacità di trasformare un’espressione macabra e scioccante in raffinatezza, le cose brutte e triviali in soavità e bellezza: “Dalle piaghe, dalla muffa e dal fango /Ho schiuso bellezze e nuovi valori.”Nella poesia “Testamento” c’è il suo credo artistico. Il “Testamento” più prezioso del poeta che lascia a suo figlio, è un accumulo di ricchezze spirituali, radunate con tanto sforzo, di generazione in generazione: ”Non ti lascerò averi, alla mia morte/Un nome accolto su un libro hai in sorte”.Nelle sue poesie d’amore, Arghezi coglie quel sentimento indefinito e ineffabile di mistero, che fa innamorare e che cambia l’anima dandogli un nuovo profilo esistenziale, ma anche un senso di transitorietà. La donna è una dolce musica, e una sinfonia vibrante della vita: “una canzone di violino che dorme tacita”. “Una parola nomina l’altra parola,la mette in moto, un’altra parola gli porta la luce. Una parola pesa un milligrammo e l’altra parola può pesare il peso della montagna rovesciata dalle fondamenta e annegata in quattro sillabe. Parole come fiocchi, parole come aria, parole come metallo. Parole scure come le grotte e parole limpide come le sorgenti che partono da loro. In una parola si genera l’alba e altre parole fanno calare la sera”-tratta dal libro “Parole appropriate”.

 

arghezi

FLORI DE MUCIGAI

 

Le-am scris cu unghia pe tencuială

Pe un părete de firidă goală,

Pe întuneric, în singurătate,

Cu puterile neajutate

Nici de taurul, nici de leul, nici de vulturul

Care au lucrat împrejurul

Lui Luca, lui Marcu şi lui Ioan.

Sunt stihuri fără an,

Stihuri de groapă,

De sete de apă Şi de foame de scrum,

Stihurile de acum.

Când mi s-a tocit unghia îngerească

Am lăsat-o să crească

Şi nu mi-a crescut –

Sau nu o mai am cunoscut.

Era întuneric.

Ploaia bătea departe, afară.

Şi mă durea mâna ca o ghiară

Neputincioasă să se strângă

Şi m-am silit să scriu cu unghiile de la mâna stângă.

 

FIORI DI MUFFA

 

Li ho scritti sull’intonaco con l’unghia

sul fondo d’una nicchia vuota,

al buio, in solitudine,

con le forze non sorrette

né dal toro, né dal leone, né dall’aquila

che lavorarono intorno

a Luca, a Marco e a Giovanni.

Sono versi senza data,

versi di fossa,

di sete d’acqua e di fame di cenere,

i versi di ora.

Quando l’unghia d’angelo s’è logorata

l’ho lasciata crescere e non è più cresciuta –

o non l’ho più riconosciuta.

Era buio. Fuori, la pioggia batteva lontana.

La mia mano dolorava come artiglio

impotente a ritrarsi.

E mi sono sforzato di scrivere con le unghie della mano sinistra.

(Traduzione di Marco Cugno: Tudor Arghezi, Accordi di Parole, Einaudi, 1972.)

 

Articolo di Alina Breje 

“AFFLUENTI” E LA SCOMMESSA DI UNA NUOVA POESIA A FIRENZE

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Ieri al Pisa Book Festival è stata la prima uscita ufficiale per “AFFLUENTI” antologia di nuova poesia fiorentina, a cura del sottoscritto, Marco Incardona e da Edoardo Olmi e edito dalla Ensemble di Roma.

Quando un anno fa, proprio al Pisa Book Festival, parlai con Matteo Chiavarone, direttore editoriale delle edizioni Ensemble, che ringrazio pubblicamente per l’opportunità che ci ha dato,  del progetto di un’antologia di poeti fiorentini fuori dagli schemi, non pensavo che il progetto potesse davvero realizzarsi tanto velocemente e in maniera così coinvolgente. In questo anno, anche grazie all’aiuto del poeta e amico Edoardo Olmi, un gruppo eterogeneo di poeti e poetesse si è riunito davanti a un progetto e ha deciso di farlo proprio, trasformandolo in un progetto collettivo che ha voglia di crescere ed aprirsi ulteriormente alla città.

E la sfida non era né priva di rischi, né immediata, perché Firenze non è una città facile e soprattutto non è una città facile per chi vuole fare davvero qualcosa che venga dal basso, che sia fuori dalle solite logiche e consorterie, che voglia rompere con la retorica ribaltata della controcultura e del finto underground imperanti. Come circoli chiusi e compatti, i sicofanti della parola e della cultura fiorentina monopolizzano la vita cittadina, lasciando una galassia di possibili voci poetiche isolate e incapaci di esprimersi appieno.

La sfida che questa antologia voleva prefiggersi, era proprio di dare per la prima volta uno spazio a queste voci, riconoscendole, aggregandole, potenziandone la capacità di emersione, squartando allo stesso tempo trasversalmente le generazioni e i tessuti sociali e culturali della città di Dante. La sfida era quella di far emergere dal basso e in maniera completamente avulsa da qualsiasi logica di appartenenza, una pluralità di personalità diverse, ma pronte a incontrarsi e, nel caso, a contaminarsi.

Lascio ai lettori dell’antologia l’arduo compito di decidere se la sfida è stata vinta e se il risultato è stato convincente.

Posso dire unicamente che, come gruppo poetico, proveremo a crescere ancora e a far crescere una nuova consapevolezza collettiva, capace di mettere al centro la poesia e la parola, aggregando se possibile nuove individualità e coinvolgendo nuovi progetti. Quello che posso dire è che il risultato umano è stato anche più coinvolgente di quello editoriale. Scoprendoci come poeti e poetesse, ci siamo anche incontrati come esseri umani pronti allo scambio e al dialogo sincero, disinteressato, privo delle competizioni da oche starnazzanti di tanta cultura ufficiale e questo non era per nulla scontato. sono sorte nuove amicizie e si sono rafforzate ulteriormente quelle esistenti.

Anche per questo “Affluenti” vuole essere una tappa, una tappa alla quale affluiscono oggi un gruppo di poeti e poetesse, ma alla quale si uniranno nuove voci e nuove personalità alla prossima tappa.

Nella città dominata dal fiume Arno, il titolo “Affluenti” ci è sembrato il modo migliore non solo per evocare Firenze come crocevia fondamentale di tutte le nostre esperienze di vita e di poesia, ma anche per spiegare al meglio lo spirito di questa antologia.

In una città, Firenze, culla della lingua e della cultura italiana,  ormai invasa di turisti, in cui l’italiano è spesso un optional e provincializzata da un milieu culturale di rendita e poco aperto, trovare un varco e uno spiraglio per andare controtendenza sembrava all’inizio un compito difficile. Città della globalizzazione per eccellenza, Firenze ama invece celebrarsi come tempio chiuso del campanile, come coacerbo di tradizioni secolari e impenetrabili per il non fiorentino, ama celebrarsi come tempio ribelle di una controcultura underground spesso in opposizione a quanto avviene a Roma o a Milano, ma in realtà troppo spesso retorica più che autentica, canonica più che innovativa. Lavoratori, o turisti, studenti o docenti, gli stranieri e forestieri sono spesso visti come un corpo estraneo incapace di cogliere l’essenza dello spirito dei luoghi. Un universo incapace di comprendere la città di Dante e di Boccaccio, di Poliziano e di Collodi.

Era un rischio che avevo sinceramente corso anche io pensando al come costruire un percorso antologico realmente innovativo. Invece in corso d’opera, sia io che Edoardo Olmi ci siamo accorti che, mai come in questo occasione, i possibili problemi e le possibili soluzioni coincidevano in maniera virtuosa.

Se è vero certamente che la cultura italiana e fiorentina rischiano davvero di affievolirsi poco a poco e inesorabilmente nelle strettoie inarrestabili della globalizzazione e dell’omogeneizzazione del pensiero unico oggi imperanti, è anche vero il contrario, ovvero che proprio i figli della globalizzazione e di una Firenze multietnica, rappresenteranno non solo il futuro sociale della città, ma anche quello culturale. La loro complessità culturale non solo non distruggerà l’autentica singolarità di questa città, ma la rafforzerà aprendola a nuovi stimoli e a nuovi slanci.

Questo è quello che ci è sembrato evidente, leggendo le poesie di Baret Magarian, poeta anglo-armeno di gran valore, oppure di Manuela Pana poetessa rumena, che ha vissuto a lungo a Firenze e che oggi vive in Inghilterra, oppure di Hasan Atya Al Nassar, il grande poeta iracheno che ha scelto Firenze come luogo di esilio, ma anche di vita poetica e di espressione. Poeti diversissimi, ma che hanno fatto di Firenze il centro di vita e dell’italiano come lingua poetica, un orizzonte necessario.

Questa antologia si è aperta anche e soprattutto a loro, perché siamo convinti che questi poeti, che ci onorano di vivere e operare a Firenze, rappresentino davvero il nostro futuro culturale. Si è aperta a loro, perché siamo convinti che solo aprendosi Firenze potrà tornare a una vitalità e a un fermento culturali oggi assenti.

Ma questa è anche un’antologia di giovani, di giovani conosciuti o meno conosciuti, ma tutti talentuosi e pronti a crescere umanamente e poeticamente.

Questa vuole essere soprattutto la vostra antologia, aperta a tutti, tappa di un percorso, piuttosto che traguardo, coinvolgente e aggregativa, piuttosto che chiusa e limitata al già fatta del già detto. Questa antologia di “affluenti” vuole quindi costruire ponti di comunicazioni, tracciare varchi di nuova socialità e vuole soprattutto vuole farlo partendo dal basso, dalla vita di uomini e donne che vivono in questa città con tutte le sue contraddizioni. Circolarità tra vita e parola, tra emozione e espressione poetica, non sono solo la cifra di questa antologia, ma sono anche il varco profondo che questo progetto vuole donare alla città e al suo futuro culturale.

Scrive Giovanni Abbate  presente nell’antologia e poeta sempre raffinato e profondo:

La chiave fra le mani
a serrare la porta
e quell’ultima occhiata nella penombra:

il bicchiere lasciato sul tavolo
la sedia scostata
l’anta della dispensa aperta.

Poi il rituale dell’incedere
il sole accecante
le orme raschiate dal vento.

(Da dove siamo venuti?)

Da dove siamo venuti?

Questa domanda coglie il mistero profondo che assilla l’uomo da qualche millennio a questa parte. Vivere e scrivere in una città come Firenze, forse non demonizza del tutto questo dramma irrisolvibile, ma lo addolcisce certamente con un oceano di bellezza. Riscoprirlo insieme è ancora più bello.

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