Pubblico un estratto dall’ultimo racconto, intitolato “un’antica colpa”, tratto dal libro “Ad un certo punto dell’Arno” (Puntoacapo editore) che attesto il mio continuo e incessante dialogo con lo scrittore Gesualdo Bufalino. Uno scrittore che torna in tutti i miei scritti, come un maestro, ma molto più probabilmente, come un giudice silenzioso di quel che mi accingo a scrivere… un punto di riferimento imprescindibile…
Quel giorno però, il professore aveva fatto rientro in casa, senza
riservare neanche un remoto pensiero ai grandi maestri del
Siglo de Oro. All’università, dove insegnava letteratura italiana,
aveva tenuto una lezione sulla figura del grande scrittore siciliano
Gesualdo Bufalino che era senza dubbio la sua grande passione
letteraria, e da quel momento non era riuscito a pensare ad
altro che a quel grande scrittore che da sempre rappresentava
per lui un insondabile mistero.
Che stano paradosso anche il suo, visto che nella sua vita non
aveva fatto altro che inseguire la sua ambizione e il suo desiderio
di farsi strada in ambito accademico, sacrificando affetti, amicizie,
le sue un tempo tanto amate radici toscane, e che poi aveva
finito per specializzarsi e diventare un critico di uno scrittore
come Don Gesualdo, che aveva vissuto quasi tutta la sua vita in
maniera anonima e appartata e che solo la casualità dell’incontro
con Elvira Sellerio e con Sciascia, avevano sottratto dal probabile
oblio. Ci aveva mai pensato a questo paradosso? Perché si era
innamorato di uno scrittore che aveva deciso di condurre
un’esistenza completamente diversa alla sua?
Per tutto il viaggio di rientro in metro, il professor Franceschini
non aveva smesso di pensare a questo strano paradosso. Tutti
lo ritenevano un’autorità sulla figura di Bufalino, eppure come
uomo, come essere umano, egli poteva considerarsi quanto di
più distante da lui. Se lo avesse incontrato per strada e parlato
con lui, lo avrebbe certamente evitato come il male assoluto. A
lui non erano mai piaciute le persone che non lottavano, che si
accontentavano, che per un finto pudore si relegavano in un
angolo del mondo e aspettavano il lento scorrere dell’esistenza.
No, a lui quelle persone non erano mai piaciute, con quel loro
addurre sempre grandi parole, grandi concetti e certezze incrollabili
per giustificare il senso profondo delle loro azioni. Era
troppo facile fare così, lavarsi le mani dalla vita adducendo grandi
scuse e alti ideali; la verità era che la vita era compromissione,
eterna lotta degli uomini con altri uomini per affermare meriti
che mai nessuno sarebbe stato disposto a concedere senza aver
combattuto.
Gli ideali, le belle parole, le grandi frasi magniloquenti, quelle
che lui e i suoi colleghi e colleghe usavano ogni giorno, erano
solo un corredo, un corredo da tenere con cura e mostrare come
la più brillante delle argenterie, ma pur sempre un corredo. Il
vero motore che faceva scattare le parole, che faceva scoccare le
formule critiche e i vezzi stilistici era l’ambizione, la voglia di
essere riconosciuti come delle autorità. Gente come Bufalino,
adduceva come spiegazione alla rinuncia, il proprio essere orgogliosi,
incapaci cioè di accettare l’eventuale rifiuto, il non riconoscimento
del proprio talento letterario. Ma questa non poteva in
nessun modo essere una giustificazione accettabile. Perché
l’ambizione, il volersi affermare ad ogni costo sono proprio
l’unica risposta possibile alla legittima paura di non essere riconosciuti
per il proprio talento. Ed il punto era proprio questo:
nessuno riconoscerà mai in vita, a meno che una condizione
sociale determinata metta quella persona al di sopra di tutto, il
talento di qualcun altro. Il talento sarà solo un corredo postumo
e necessario per giustificare nella bocca degli altri, l’unica verità
che sono disposti ad accettare, ovvero di aver perso la lotta e
dover ammettere la sconfitta rispetto a chi ha trionfato. E anche
chi ha trionfato, nel suo caso trionfato sulla casta sacerdotale dei
celebratori del culto della critica letteraria, era solo in nome di
una pace temporanea. Rimanevano cioè, come in tutti gli ambiti
dove qualcuno trionfa sugli altri, dei belligeranti in tregua armata,
pronti a scannarsi l’un con l’altro alla prima occasione. Solo
che mentre la tregua era in vigore, essa doveva essere corredata
da cerimoniosi espressioni quali “carissimo professore”, “esimia
professoressa”, “stimatissimo dottore”, “acutissima critica” e via
discorrendo.
Questa era sempre stata la sua vita da quando aveva deciso di
fare il dottorato, tanti anni prima, mettendo tutto il resto in secondo
piano. A quel punto ammettere di aver sbagliato gli era
divenuto impossibile e la sua via era tracciata, ma allora perché?
Perché ostinarsi a studiare un autore la cui stessa antropologia
gli era estranea, quasi incomprensibile? Eppure la risposta era
proprio in uno dei passi che aveva letto agli studenti in classe e
che aveva suscitato tanto interesse, contenuto nel volume le Cere
perse e intitolato Le ragioni dello scrivere:
Perchè si scrive, mi chiedo. Perchè ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si
dà il corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta,
s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori così
plausibile piove la luce della luna nell’erba, e i nostri moti naturali, le più
immediate insurrezioni dei nostri sensi, c’invitano al gioco affettuosamente,
divinamente semplice della vita? La vita che è innamoramento impulsivo di
se stessi, credulo abbandono alle quattro dorate, virginee, felici stagioni.
Scrivere, insinua la voce, non significa solo adulare i minuti con la cosmesi
dell’immaginario, ma nutrirli dei nostri escreti mentali, addobbarli viziosamente
delle nostre maschere nere. Rappresenta dunque in qualche modo una
colpa: forse macchiarsi le mani d’inchiostro è come macchiarsele un poco di
sangue, uno scrittore non è mai innocente.
Ma lui di che cosa mai doveva sentirsi in colpa?