Il rudere

I processi osmotici della mia mente,

percorrono i filari degli anni,

perdendosi spauriti in radure sconosciute.

Abbraccio gli anestetici d’insignificanza

Con l’affetto di un bambino accovacciato;

gioco tanto per non fare il bullo da salotto,

che predica guerra e vendetta

E incassa mirra e vendemmia d’onori.

lo sguardo deve sempre scegliere,

se vuole districarsi nella selva di pochezze,

nello stridere rancido di grandi eventi.

deve sempre posarsi indignato,

ove l’intelligenza rifiuta l’unguento del

successo.

Marco incardona

Il silenzio val bene un’opera

Se potessi trattenere il polpaccio di quel pomeriggio lontano,
in quella mansarda invasa di luce nel buio della sera. Proprio
quello, così com’era, emerso dolcemente nel ritrarsi della
tuta blu scuro acetato. Potessero le mie mani toccare ancora
lente quel polpaccio, spazzando via di gran cassa la mia angoscia
che quel pomeriggio mi aveva portato in quella casa, in quella
stanza dove tu eri. Oggi che le parole sono il mio pane quotidiano,
mi sorprendo nel vedere quanto fossero difficili allora,
come un relitto finito in fondo al mare da riportare infine a
galla. Ma oggi il mio cuore non batte come in quel pomeriggio,
e le mie parole girano troppo spesso a vuoto in cerca di emozioni
ormai sfibrate e arenate. Quanto vorrei ora prestarle a
quella gola che stava soffocando nel dire un semplice «sei
bella». E poi, di colpo, il tuo «Perché mi dici queste cose?».
Perché? Perché avevo detto quelle cose e non ero andato fino
in fondo? Non dissi nulla. Forse solo un: «È quello che
penso!». Si pensa dunque l’amore?
Intanto vedevo il tuo sguardo perdersi nel vuoto, come spesso
ti accadeva in quei giorni, e come mai più ti vidi fare in seguito.
Oggi che lo sciabordio molesto degli anni passati ci ha allontanati,
non so più se, d’improvviso, guardi ancora il vuoto come
quel pomeriggio risucchiato dal tempo, o se la vita ti ha fatto
chiudere per sempre quella porta che in fondo condividi solo
con me. Ho paura nel sapere quel che non deve essere saputo.
Penso solo al mio silenzio, al mordere prepotente delle mie
insicurezze, della mia immensa frustrazione. La vita non risarcisce
quel che non ha mai dato. Soprattutto quello.
Cosa chiede ancora il silenzio di quel pomeriggio? Perché
bussa insolente e mi fa vedere in un altro volto quel tuo volto
di allora? Perché mi scortica gli occhi fino a farmi esplodere?
Eppure è solo quel silenzio che, come un angelo perverso, mi
spinge a scrivere. Un silenzio che vale tutta un’opera.


(Da Materiale Infetto Edizione Ensemble 2022)

B 7456 di Valentina Lo Bello

Pubblico con piacere questo “relato” di Valentina Lo Bello che mi ha particolarmente colpito per incisività e forza espressiva, nel quale con pudore e “religioso” rispetto viene tratteggiata, nella storia di due fratelli, una delle peggiori tragedie di cui il genere umano sia stato capace di macchiarsi. Per non dimenticare.

Stamani mentre facevo colazione ho acceso la tv.
Un uomo anziano con un viso smunto racconta una storia…
Parla con voce flebile muovendo le minute sottili labbra …
Da quella piccola bocca il fiato si traduce in parole pesanti come enormi massi…
Come lame taglienti.
Due occhi piccoli incavati …
Due fessure arrossate e inzuppate di lacrime …nello sguardo basso e fisso dei ricordi.
(Stamani mentre facevo colazione ho acceso la tv e un uomo anziano racconta la sua storia…)
Racconta del desiderio di un condannato a morte di voler rivedere per l’ultima volta sua sorella
Lucia.
Rischia moltissimo quando si avvicina al filo spinato e vede una sagoma che fa cenno di saluto con
la mano.
Era Lucia!!
Irriconoscibile!!
Aveva lasciato una bellissima ragazza con lunghi capelli biondi e occhi azzurri brillanti dei suoi 17
anni
e ora
quella sagoma di pelle e ossa
calva
con occhi spenti
che trascina il suo esile corpo
dentro un pigiama a righe
è sua sorella!!

(Stamani mentre facevo colazione ho acceso la tv e un uomo anziano racconta la sua storia…)
Si guardano
E si fanno dei gesti che indicano baci e abbracci.
In silenzio si capiscono dicendosi tutto.
L’indomani alla stessa ora ritorna e la ritrova.
Le lancia un panno bianco che avvolge una fetta di pane che sarebbe stata la sua razione di cibo
giornaliero.
Riesce a vedere il tentativo di sorridere da parte della sorella che gli rilancia il panno bianco.
Lui lo apre e trova ben due fette di pane.
Piange a dirotto dentro quel pane e quell’abbraccio immenso che le manda la sorella.
L’indomani ritorna alla stessa ora e nello stesso posto ma non la trova.
Ritorna all’appuntamento con il panno bianco e la sua fetta di pane per ancora per ancora tanti e
tanti giorni ma non trova più sua sorella.
(Stamani mentre facevo colazione ho acceso la tv e un uomo anziano racconta la sua storia…)
Io non ho terminato la colazione e in ginocchio ho continuato a guardare il racconto di questo
grande uomo.
Un sopravvissuto.
Un’inevitabile rosso sangue pervade.
Indicibile vergogna umana.
Immenso amore e comprensione per i sopravvissuti.
Mi chino.
Chiniamoci
Tutti.
“Con Sami per non dimenticare”

Di Valentina Lo Bello

Alcuni cenni biografici:
Nata in un’isola il primo di Aprile. Mi definisco una sicul-tosca con cuore siciliano e anima toscana.
Dopo gli studi letterari a Pisa, sono stata per diversi anni titolare di un’agenzia di grafica
pubblicitaria ed editoriale. Attualmente mi occupo di comunicazione, organizzazione di eventi
culturali e progetti scolastici. Le mie passioni sono leggere, scrivere, fotografare, dipingere e la
matematica. Il mio primo libro di poesie “Un giorno in-verso ”presentato nel dicembre 2022.

BUFALINO NEL RACCONTO “UN’ANTICA COLPA”

Pubblico un estratto dall’ultimo racconto, intitolato “un’antica colpa”, tratto dal libro “Ad un certo punto dell’Arno” (Puntoacapo editore) che attesto il mio continuo e incessante dialogo con lo scrittore Gesualdo Bufalino. Uno scrittore che torna in tutti i miei scritti, come un maestro, ma molto più probabilmente, come un giudice silenzioso di quel che mi accingo a scrivere… un punto di riferimento imprescindibile…

Quel giorno però, il professore aveva fatto rientro in casa, senza

riservare neanche un remoto pensiero ai grandi maestri del

Siglo de Oro. All’università, dove insegnava letteratura italiana,

aveva tenuto una lezione sulla figura del grande scrittore siciliano

Gesualdo Bufalino che era senza dubbio la sua grande passione

letteraria, e da quel momento non era riuscito a pensare ad

altro che a quel grande scrittore che da sempre rappresentava

per lui un insondabile mistero.

Che stano paradosso anche il suo, visto che nella sua vita non

aveva fatto altro che inseguire la sua ambizione e il suo desiderio

di farsi strada in ambito accademico, sacrificando affetti, amicizie,

le sue un tempo tanto amate radici toscane, e che poi aveva

finito per specializzarsi e diventare un critico di uno scrittore

come Don Gesualdo, che aveva vissuto quasi tutta la sua vita in

maniera anonima e appartata e che solo la casualità dell’incontro

con Elvira Sellerio e con Sciascia, avevano sottratto dal probabile

oblio. Ci aveva mai pensato a questo paradosso? Perché si era

innamorato di uno scrittore che aveva deciso di condurre

un’esistenza completamente diversa alla sua?

Per tutto il viaggio di rientro in metro, il professor Franceschini

non aveva smesso di pensare a questo strano paradosso. Tutti

lo ritenevano un’autorità sulla figura di Bufalino, eppure come

uomo, come essere umano, egli poteva considerarsi quanto di

più distante da lui. Se lo avesse incontrato per strada e parlato

con lui, lo avrebbe certamente evitato come il male assoluto. A

lui non erano mai piaciute le persone che non lottavano, che si

accontentavano, che per un finto pudore si relegavano in un

angolo del mondo e aspettavano il lento scorrere dell’esistenza.

No, a lui quelle persone non erano mai piaciute, con quel loro

addurre sempre grandi parole, grandi concetti e certezze incrollabili

per giustificare il senso profondo delle loro azioni. Era

troppo facile fare così, lavarsi le mani dalla vita adducendo grandi

scuse e alti ideali; la verità era che la vita era compromissione,

eterna lotta degli uomini con altri uomini per affermare meriti

che mai nessuno sarebbe stato disposto a concedere senza aver

combattuto.

Gli ideali, le belle parole, le grandi frasi magniloquenti, quelle

che lui e i suoi colleghi e colleghe usavano ogni giorno, erano

solo un corredo, un corredo da tenere con cura e mostrare come

la più brillante delle argenterie, ma pur sempre un corredo. Il

vero motore che faceva scattare le parole, che faceva scoccare le

formule critiche e i vezzi stilistici era l’ambizione, la voglia di

essere riconosciuti come delle autorità. Gente come Bufalino,

adduceva come spiegazione alla rinuncia, il proprio essere orgogliosi,

incapaci cioè di accettare l’eventuale rifiuto, il non riconoscimento

del proprio talento letterario. Ma questa non poteva in

nessun modo essere una giustificazione accettabile. Perché

l’ambizione, il volersi affermare ad ogni costo sono proprio

l’unica risposta possibile alla legittima paura di non essere riconosciuti

per il proprio talento. Ed il punto era proprio questo:

nessuno riconoscerà mai in vita, a meno che una condizione

sociale determinata metta quella persona al di sopra di tutto, il

talento di qualcun altro. Il talento sarà solo un corredo postumo

e necessario per giustificare nella bocca degli altri, l’unica verità

che sono disposti ad accettare, ovvero di aver perso la lotta e

dover ammettere la sconfitta rispetto a chi ha trionfato. E anche

chi ha trionfato, nel suo caso trionfato sulla casta sacerdotale dei

celebratori del culto della critica letteraria, era solo in nome di

una pace temporanea. Rimanevano cioè, come in tutti gli ambiti

dove qualcuno trionfa sugli altri, dei belligeranti in tregua armata,

pronti a scannarsi l’un con l’altro alla prima occasione. Solo

che mentre la tregua era in vigore, essa doveva essere corredata

da cerimoniosi espressioni quali “carissimo professore”, “esimia

professoressa”, “stimatissimo dottore”, “acutissima critica” e via

discorrendo.

Questa era sempre stata la sua vita da quando aveva deciso di

fare il dottorato, tanti anni prima, mettendo tutto il resto in secondo

piano. A quel punto ammettere di aver sbagliato gli era

divenuto impossibile e la sua via era tracciata, ma allora perché?

Perché ostinarsi a studiare un autore la cui stessa antropologia

gli era estranea, quasi incomprensibile? Eppure la risposta era

proprio in uno dei passi che aveva letto agli studenti in classe e

che aveva suscitato tanto interesse, contenuto nel volume le Cere

perse e intitolato Le ragioni dello scrivere:

Perchè si scrive, mi chiedo. Perchè ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si

dà il corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta,

s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori così

plausibile piove la luce della luna nell’erba, e i nostri moti naturali, le più

immediate insurrezioni dei nostri sensi, c’invitano al gioco affettuosamente,

divinamente semplice della vita? La vita che è innamoramento impulsivo di

se stessi, credulo abbandono alle quattro dorate, virginee, felici stagioni.

Scrivere, insinua la voce, non significa solo adulare i minuti con la cosmesi

dell’immaginario, ma nutrirli dei nostri escreti mentali, addobbarli viziosamente

delle nostre maschere nere. Rappresenta dunque in qualche modo una

colpa: forse macchiarsi le mani d’inchiostro è come macchiarsele un poco di

sangue, uno scrittore non è mai innocente.

Ma lui di che cosa mai doveva sentirsi in colpa?

L’ANGELO IN INCOGNITO (estratto tratto dal racconto “l’angelo in incognito” in “Ad un certo punto dell’Arno”)

Angelus Novus di Paul Klee

“Un bel giorno di inizio millennio, mentre le borse cominciavano a fare i primi capricci e i mari parevano dare i primi segni di intolleranza alle tonnellate di plastica che vi ci erano gettate ogni giorno, l’Angelo del Signore pensò bene di farsi un bel giretto di perlustrazione su quelli che, fino a prova contraria, erano i suoi domini.
Planando e riplanando sulla terra, come solo un angelo sa fare, filando ora tra le valli, alzandosi sulle più alte montagne, decise
alla fine di fare visita al primo paesino che gli capitasse a tiro durante il suo ultimo giro di circospezione aerea. Il caso celeste
volle che il paesino in questione fosse proprio quello di C., anonimo centro toscano, adagiato ad un certo punto dell’Arno, come addormentato su stesso, in cerca di un sussulto inaspettato, che lo consegnasse alla storia per un qualche evento di portata
eccezionale. Non esisteva dunque nessun particolare motivo per quella scelta e infatti, a priva vista, L’Angelo, osservandolo minuziosamente dall’alto, si accorse subito di essere capitato in un luogo privo di alcuna particolarità che lo facesse ricordare per la sua bellezza. Le vie del centro storico apparivano deserte, come se un morbo improvviso ne avesse decimato la popolazione. Fuori dal centro, protette da vaste murate di recinzione, numerose ville attestavano la ricchezza che molti tra i suoi abitanti avevano fatto con le industrie che si vedevano in lontananza, nel vasto distretto industriale che occupava la pianura a perdita d’occhio.
In fin dei conti, proprio per la sua insignificanza, C. sembrò subito all’Angelo il luogo giusto per capire a che punto si trovasse l’umanità ad inizio millennio. La tecnologia e la scienza consentivano ora all’umanità di risolvere la gran parte dei problemi
di sopravvivenza che ne avevano fino a quel momento contraddistinto la storia. Esistevano delle enormi contraddizioni nel
pianeta, dovute proprio al diverso grado di sviluppo, ma l’Angelo confidava sul fatto che gli esseri umani avessero capito
che la ridistribuzione equo delle ricchezze, fosse l’unico modo per garantire a tutti, e quindi anche ad ognuno di loro, una duratura tranquillità.
Era per questo che aveva deciso di rivisitare la terra dopo tanto tempo. Credeva infatti, che gli esseri umani, coscienti di trovarsi all’alba di un nuovo millennio, si fossero dati come compito prioritario e unico, proprio quello di appianare i contrasti e le
differenze che facevano avere a pochi le ricchezze di molti. Se li immaginava indaffarati in progetti di cooperazione, in politiche
di aiuto ai paesi più poveri, in mille forme di accoglienza diffusa.
Aveva visto i terrestri rendersi protagonisti delle peggiori infamie, macchiarsi dei più grandi crimini, li aveva visti al tempo
dell’Inquisizione e della caccia alle streghe, dei pogrom, della schiavitù, del colonialismo, dell’eccidio di Nanchino. Aveva planato e visitato le città martoriate del Vietnam, aveva visto da vicino i campi di sterminio nazisti, i gulag staliniani. Era a Hiroshima nei momenti immediatamente successivi allo scoppio della bomba atomica, aveva visto i corpi polverizzati e devastati di
inermi bambini. Ne aveva visti altri vagare come degli zombie in cerca dei propri familiari scomparsi.
Eppure anche i quei momenti terribili, non aveva mai smesso di confidare in quegli esseri tanto fragili che si credevano signori
della terra e sui quali doveva vigilare con la pazienza di una balia temprata alle prove più dure. Continuava a credere che gli esseri
umani sarebbero stati prima o poi in grado di emanciparsi dal bisogno materiale, che era in fondo la fonte di tutto questo loro
errare nell’errore e nella violenza. Del resto un bisogno più grande si sarebbe spalancato davanti ai loro occhi sbigottiti, quello
spirituale, quello che probabilmente in nessun modo potrà mai essere soddisfatto su questa terra, e il suo compito di loro Angelo custode sarebbe dovuto essere quello di vegliare appunto sul loro smarrimento. Il nuovo millennio era parso all’Angelo il momento giusto per inaugurare la svolta, per verificare se gli esseri umani, almeno nelle zone in cui avevano vinto i bisogni basilari di sussistenza, fossero in fermento e ambissero per la prima volta nella loro storia millenaria, a concentrarsi davvero sui problemi che loro chiamavano “dello spirito” e sulla comune appartenenza al genere umano.

Rimaneva, una volta scelta il luogo e il momento in cui ispezionare lo stato di avanzamento dei suoi “cari terrestri”, rimaneva un’ultima grande decisione da prendere per l’angelo. Come sarebbe apparso loro?”

Disegno del campanile di Castelfranco di Sotto ad opera di Pierluigi Doro, copertina del libro di racconti “Ad un certo punto dell’Arno (fotografie di una quarantena).

FIRENZE OVVERO L’EDEN DI ATTENDU

Pubblico una delle prose “poetiche” (nel senso di Julia Kristeva) contenute in Materiale Infetto

“Secondo quanto riportato da Rodolfo Wilcock nella
splendida opera La sinagoga degli iconoclasti, il professor Alfred
Attendu, autore dell’opera scientifica-divulgativa L’embêtement
de l’intelligence (Besançon, 1945) e direttore di un
sanatorio di malati di mente nel Jura francese, sarebbe stato
l’autore di una bizzarra teoria. Questa teoria aveva potuto riscontrarla
e metterla in pratica proprio nel suo sanatorio, di
cui era stato direttore dal 1940 al 1944. Mentre in basso gli
Europei giocavano a scannarsi l’uno con l’altro al grido di
“Heil Hitler” e cose varie, nessuno aveva pensato di arrecare
il minimo disturbo al professore Attendu che aveva potuto
continuare indisturbato i suoi studi.
In parole povere, la teoria di Alfred Attendu si concentrava
sulla costatazione, assolutamente controcorrente, che i dementi
e gli imbecilli non fossero semplicemente persone affette
da una patologia dell’intelletto, ma fossero null’altro che persone
che ci parlavano dell’origine del genere umano. Nei suoi
primordi, l’umanità era composta pressoché esclusivamente,
anzi esclusivamente, di imbecilli e cretini, incapaci di intendere
e volere. Ed era un bene, difatti i nostri primi antenati non soffrivano
di tutti quei disturbi, patologie, fanatismi e schizofrenie
che affliggono oggi l’umanità. Insomma, tutto quello che
poteva ampiamente verificare nel suo tempo storico.
Per Alfred Attendu sono les enfants du bon Dieu a essere
l’origine di tutto. Gli imbecilli e i cretini di oggi sono semplicemente
coloro che hanno maggiormente tenuto i contatti
con l’imbecillità primigenia, mi si permetta il termine. Compito
del curatore e sanatore, almeno secondo il professore Alfred
Atttendu, sarebbe proprio quello di assecondare questi
elementi di attinenza all’originale, manifesti nei cretini del
nostro tempo, togliendo progressivamente ogni sovrastruttura
frutto della nostra civiltà. Compito del medico è quello
di riportare l’imbecille all’imbecillità originaria.
Non sono in grado al momento di approfondire le bizzarre
teorie dello psichiatra francese e mi attesto su quanto mirabilmente
scritto da Wilcock. Al contempo non è nemmeno
difficile immaginare dove voglio andare a parare.


Se il povero professor Alfred Attendu, che per il suo lavoro
di ripristino dell’imbecillità originaria finì per avere mille
grane e subire processi, avesse potuto vedere la Firenze di inizio
millennio, quella del giorno d’oggi per intendersi, avrebbe scoperto
che l’Eden in terra degli imbecilli esiste già. Sono sicuro,
sarebbe impazzito di gioia nel vedere quanti cretini e imbecilli
impazzano per le strade abbandonandosi naturalmente alle più
inimmaginabili testimonianze della loro totale mancanza di
intelletto. Lui che chiamava i matti gli eletti del Signore, i bambini
di Dio, avrebbe certamente eletto Firenze come la città
Celeste, l’eletta da Dio per riportare l’umanità al suo stato di
imbecillità originaria e salvarla dunque da se stessa.
Ovviamente le incrostazioni esistono, anche nella Firenze
d’oggi. La civiltà degenerata e patologica si manifesta nella
naturale tendenza alla falsità e al materialismo bottegaio dei
fiorentini d’oggi. Segno evidente di una città che conobbe lustri
e che, un tempo immemore, fu regina della storia degli
umani degenerati. Si sarebbe probabilmente dato il compito
massiccio, il nostro buon Attendu, di eliminare ogni residuo
civile, cosa peraltro non impossibile, e riportare il fiorentino
allo stato di imbecillità originaria del genere umano. Firenze
sarebbe stata il punto di partenza per rimbecillire il mondo.
In questo tentativo di rincretinimento del fiorentino, Alfred
Attendu si sarebbe accorto che lo stato di imbecillità più
simile a quello delle origini viene facilmente raggiunto
quando essi assumono dosi massicce di stupefacenti e, tra essi,
soprattutto quando assumono cocaina. Avrebbe dunque consigliato
una posologia massiccia fatta a dosi di cocaina e
l’avrebbe imposta all’intera massa della popolazione. Bambini,
adulti, vecchi e chiunque fosse in grado di sniffare.
Lo ripetiamo, Firenze sarebbe stata l’Eden perduto di Attendu.
L’Eden perduto di una città che sa solo perdersi.”

(Da Materiale Infetto di Marco Incardona , Edizioni Ensemble, Roma, 2022)

DURO REX SED REX

L’economia rigorosa delle emozioni

pretende vittime al suo altare

sangue che schizza dal ventre sfibrato

della memoria costretta agli straordinari

per tenersi in piedi verso il baratro.

Come se sopravvivere ai colpi precisi

dell’umana demenza fosse un algoritmo

per sciacalli londinesi in bugigttoli per topi,

Come se abbracciare un corpo, davvero,

fosse ritrovare un biglietto della metropolitana

in una una giacca oltraggiata d’alcool.

Vedere oltre il confine della mente ,

oltre le siepi ridotte a discariche,

oltre l’agitarsi sfinito degli automi.

Parlare al vento di un Dio onnipotente

e subire le scudisciate della polvere

accecare la luce dell’antica illusione.

Oggi come ieri,

cado vittima inerme

delle mie migliori intenzioni.

Marco Incardona

IL DISCORSO DELL’EDITOR

Discorso de “il Dottore” interpretato da Gian Maria Volonté e tratto dal film “Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto” diretto da Elio Petri.

Una mia libera reinterpretazione del celebre discorso “securitario” del “dottore” interpretato dal grande Gian Maria Volonté. Se nel linguaggio si annidano le trappole di “potere”, come ci ha mirabilmente ricordato Michel Foucault, nel linguaggio si aprono, sempre più rari invero, gli sprazzi di libertà che, per un attimo, dal potere come linguaggio non sono ancora sistemizzati e coerentizzati. Reprimere questa possibile effrazione e proibirla al linguaggio letterario è opera altrettanto meritoria di quella operata dai tutori dell’ordine sociale, tocca convenirne. Polizia e Editor lavorano segretamente ad un medesimo scopo, quello di tutelare le strutture esistenti e le forme riconosciute di scambio sociale e culturale. Censori in nomi della legge voluta dal corpus sociale e censori in nome del gusto determinato aprioristicamente, ex lege verrebbe da dire ridendo, dal gusto del pubblico. Trasgressori della legge ed effrattori del gusto totalitario del pubblico devono essere messi al bando ed espunti dal canone dell’esistenza socialmente condivisa!

Io ci gioco sopra, ma è solo perché in Italia la commedia vince sempre sulla tragedia, ma la situazione è senza via d’uscita, almeno per chi intende rimanere nell’alveo del “pubblico” riconoscimento sociale e letterario.

Eccolo:

“Hey scrittoruzzo come va? Signori e signore spero che voi apprezziate questa novità, questo essere riuniti tutti insieme, un po’ all’americana… vi dico subito che per il lavoro che ci attende siamo pochi, che dovremmo essere molti di più, molti di più!

Ma accomodatevi ed ascoltate!

Da oggi assumiamo la direzione del comitato politico di repressione del gusto letterario… voi sapete tutti e tutte che fino a ieri mi sono occupato di gossip, di attricette e attriciucoli, di scandali della domenica… e con un certo successo!

Non è senza significato che l’editore abbia destinato proprio me, per giunta in questo momento storico, alla direzione dell’ufficio politico di repressione del gusto letterario…

E questo perché tra gli scritti di gossip e quelli letterari sempre più si assottigliano le distinzioni che tendono addirittura a scomparire, questo scrivetevelo bene nella memoria, sotto ogni giornalista di gossip può nascondersi un letterato e sotto ogni letterato può nascondersi un giornalista di gossip!

Nella “nazione” la cui finta lingua ci è stata data in custodia, letterati e giornalisti di gossip hanno già steso i loro fili invisibili che spetta a noi di aiutare ad annodare!

Che differenza passa tra un articolo che tratta di influencer su una rivista, e uno di quei romanzucoli che escono per nostro volere e che ci sforziamo, non senza un sussulto di coscienza, per chi ce l’ha ancora, di chiamare letteratura! Quale insomma questa differenza? Nessuna! le due azioni tendono ad un medesimo obiettivo, sia pure con mezzi diversi, ovvero al definitivo rincretinimento dell’intera popolazione che ancora si ostina a leggere.

L’aumento smisurato di aspiranti scrittorucoli e poetucoli di ogni sorta, di gente che si riempie la bocca di belle parole e grandi ideali, ma che sarebbe pronta a vendere l’anima, ammessa che essa esista e che loro ne abbiano una, pur di pubblicare uno dei loro insulsi manoscritti domenicali e privi di spessore, e poi scrittori di blog, giornalisti di gossip su internet, influencer di ogni tipo e su ogni possibile fenomeno dello scibile, ed ogni altra sorta di ciarpame in forma di scrittura, ma soprattutto la progressiva diminuzione del corpus dei lettori, risultato logicamente consono al nostro obbiettivo di rincretinimento dell’intera popolazione, ma che rischia di mettere ancora più in subbuglio questo corpus informe di scribacchini improvvisati in cerca di editore, ci obbliga ad operare con ancora maggiore dovizia e sollecitudine nella selezione dei testi!

L’abuso della libertà di scrittura minaccia, o meglio può ancora minacciare in qualche raro caso di non allineato al rincretinimento, proveniente da una qualche parte insospettata, lontana dalle strette maglie della nostra sorveglianza editoriale, dicevo l’uso di questo eventuale libertà rischia di minacciare ancora i poteri culturali tradizionali, i comitati di saccenti soloni del gusto letterario che finora hanno avallato di gusto il rincretinimento collettivo…

Insomma è questo abuso della libertà di scrittura che tende a fare di qualsiasi scrittorino o poetastro un giudice del gusto, che ci impedisce di espletare veramente le nostre sacrosante funzioni… noi siamo a guardia del testo, che vogliamo immutabile nel suo obiettivo di rincretinimento collettivo, scolpito nel tempo….

Il popolo dei lettori è minorenne, la società e la nazione sono malati, ad altri spetta il compito di curare, di dispensare psicofarmici, al limite di educare, a noi spetta il dovere di reprimere! La repressione di ogni testo refrattario al rincretinimento collettivo è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!”

Marco Incardona

COMPROMESSI O COMPROMETTERSI?

Anche gli scrittori tengono famiglia e si vede, no? Sinceramente cosa dovrebbero fare se non perseguire il successo personale delle proprie carriere visto che Dio è morto, le ideologie sono cadute e gli ideali sono relativizzati in nome di un nichilismo totalitario?

Fare compromessi certo, almeno se questo serve ad affermarsi. Compromettersi davvero per una posizione, un pensiero, una battaglia, questo proprio no. Che senso ha?

Traduciamola in cose concrete: voi ve lo immaginate oggi, nell’italietta di inizio millennio, uno scrittore giovinastro o presunto tale, uno di quelli che crede che quel che scrive abbia il medesimo valore di un Proust o di un Musil, e dopo esservelo immaginato (cosa già abbastanza squallida ) sarebbe secondo voi disposto, questo novello Novalis, a compromettere, che so io una pubblicazione o il favore di un editore o direttore di una casa editrice come Mondadori, Einaudi, Bompiani ecc ecc in nome di un ideale o di una posizione letteraria?

SILENZIO.

Ma non è sempre stato così. Compromettersi in nome di un ideale, significa e ha significato per molti scrittori anche accettare dittature terribili come quella di Stalin, ma sempre in nome di un ideale che si riteneva ( a torto o a ragione ) essere alla lunga un benefico per tutti e mai per una sola persona. Compromettersi anche a costo di compromettere la propria carriera, di minare il proprio successo. Tra questi scrittori vi è sicuramente Louis Aragon. Compromesso come pochi, dadaista, surrealista, comunista, egli ha ufficialmente appoggiato lo stalinismo, accettandone le storture e le ambiguità già evidenti, ma sempre in nome del suo ideale politico e sociale. Il resto poteva andare benissimo in secondo se non in centesimo ordine. E visto che questo può sembrare incredibile, in un mondo come quello delle lettere italiote dove avere successo e stare nei salotti buoni conta più di tutto, vi faccio un esempio concreto tratto da un libro che sto o meglio stavo scrivendo sulla figura del grande poeta e scrittore francese, per spiegarvi che si può compromettersi per un ideale anche a costo di non fare compromessi per affermarsi individualmente:

“Non è dunque un caso che siano proprio gli scritti e le vicende di pubblicazione delle opere scritte all’epoca da Aragon a spiegare al meglio questa situazione paradossale. Parliamo evidentemente del secondo romanzo pubblicato da Aragon nel novembre del 1922: Les aventures de Télémaque. Un romanzo, un altro, ancora un altro, mentre tutti intorno a lui non facevano che ripetere che il romanzo era morto, che era solo una cassa di risonanza dei sentimenti borghesi e che bisognava finirla a tutti i costi con la prosa romanzesca. Come se non fosse bastato, il libro usciva come il precedente con l’editrice Gallimard, il tempio in divenire della cultura ufficiale dell’epoca, la casa editrice di riferimento della Nfr, che dadaisti e futuri surrealisti attaccavano un giorno sì e l’altro pure. Come se non fosse bastato Aragon decide niente di meno che riprendere il mito classico di Telemaco alla ricerca del padre Ulisse, reinterpretando e stravolgendo un altro libro “classico” della letteratura francese Les aventures de Tèlémaque, che all’epoca erano lette e studiate da tutti i ragazzi a scuola. Ce n’era abbastanza per irritare ulteriormente i suoi amici avanguardisti, tanto più, vale la pena ripeterlo, che Aragon restava di gran lunga, tra gli scrittori della giovane generazione avanguardista, quello che più veniva apprezzato dagli scrittori in voga, che vedevano in lui tutte le premesse di una carriera letteraria luminosa e di lungo corso.

Allo stesso tempo, paradossalmente ma con Aragon i paradossi sono all’ordine del giorno lo abbiamo capito, Les aventures de Télémaque è un libro profondamente inserito nello spirito dadaista, forse il più dada dei libri scritti da coloro che di lì a poco avrebbero fondato il surrealismo. Un libro dal carattere profondamente sperimentale, volutamente grezzo, incompleto, abbozzato come certe statue di Michelangelo, che riprendeva il mito classico e lo ripresentava in modo devastante nella realtà a lui contemporanea.

Lo si sarà capito era in fondo un romanzo che poteva piacere a molti per alcuni suoi lati, ma che poteva dispiacere a tutti per altri suoi lati. In fondo non accontentava completamente nessuno.

Gallimard intanto pubblicava un romanzo nel quale a un certo punto, precisamente nel libro II, Aragon aveva inserito il suo articolo “Système Dd.” che aveva precedentemente pubblicato sulla rivista Littérature, nell’estate del 1920, ovvero nell’epoca d’oro del dadaismo a Parigi. Era la tecnica del collage molto cara alla scrittura di Aragon e che tante volte rivedremo ripresentarsi. “Il sistema Dd si propone: di fare questo, quest’altro, il contrario, né questo, né quest’altro, di non fare niente, di fare tutto, e di farvi tacere e morire un poco. Il sistema Dd ha due lettere, ha due facce, due schiene, ammette tutte le contraddizioni, non ne ammette nessuna, è senza contraddittorio la contraddizione stessa, la vita, la morte, la morte, la vita, la vita, e gli amanti sono avvisati.” Come se non fosse bastato, e ricordiamolo si tratta di un romanzo pubblicato da una casa editrice accusata di classicismo e “poltronismo letterario” dagli avaguardisti. Aragon continuava bellamente. “Il sistema Dd vi rende liberi: rompete tutto, facce smorte. Siete i padroni di tutto ciò che romperete. Si sono fatte leggi, morali, estetiche per imporvi il rispetto delle cose fragili. Quel che è fragile va rotto. Provate la vostra forza una volta: dopodiché vediamo se smetterete. Quel che non potrete rompere vi romperà, diventerà il vostro padrone. Rompete le idee sacre, tutto ciò che vi fa venire le lacrime agli occhi, rompete, rompete, vi do per niente quest’oppio più potente di ogni droga: rompete. Portate le vostre dita dubbiose, Il dubbio è il pozzo più nero, il più profondo che vi si possa presentare: caderci dentro, significa una caduta senza fine che vi procurerà per l’eternità la piacevole sensazione della discesa in ascensore. Dubbio del dubbio: voi potrete sempre rivolgere le vostra unghia insanguinate contro le idee più puerili. Non arriverete mai a a dubitare di niente, né a rompere alcunché. Siete immobili e vi sembra di muovervi. Debolezza o forza, tutto non è altro che una canzone. Il vento che danza sulle nevi di montagna se ne sbatte alquanto delle vostre piccole esplosioni di appartamento. A una certo livello, non ci sono più degli imbecilli, ci sono solo degli imbecilli. Non c’è ragione per continuare a guardare il mondo per il buco del binocolo portatile.”

Non credo sia necessario aggiungere niente ad un testo del genere, una specie di atto di fede scritti con i crismi della fede, se non che è lo stesso Aragon a esprimere il suo atto di fede nel testo esplicitandolo in questo modo: “La prima D del mio sistema è stata il dubbio, la seconda sarà la fede. Credo in me stesso, in te, in sé, in tutti gli altri. Credo nei miracoli, alle occasioni, alle scienze occulte, alla Scienza, al sapone, alla bontà di cuore, alla devozione sociale. Credo nel cielo blu, negli alberi verdi, nel tricolore, nella bandiera rossa, nella terra rotonda come una sfera, nella gioventù giovane, nella vecchiaia vecchia. Credo, credo nel dubbio, dubito della mia fede. Dubito di credere nel mio dubbio. Quel che credo, lo credo.”1

Aragon è stato uno scrittore capace come nessun altro di esasperare i paradossi, appianandoli al contempo nella sua scrittura. Capace come nessun altro di fare proprio un clima, uno stile, una presa di posizione e esaltarla nel migliore dei modi, anche in questo un simbolo, uno scarto, un eterno enigma. Appare quasi titanica questa capacità di attraversare un’idea, anche quando non era stato lui ad averla per primo, e a renderla perfettamente, limpidamente, viva come se sgorgasse da sempre dalla sua mente.

Era forse questa sua capacità a renderlo in fondo sospetto, inassimilabile proprio quando più dimostrava di aver assimilato perfettamente un’idea. Come faceva ad essere classico e avanguardista allo stesso tempo? Come faceva ad essere direttore di un giornale ufficiale scrivendo cose che in fondo disturbavano la cultura ufficiale? Come faceva a dire cose terribili contro gli scrittori del tempo e poi riuscire a ingraziarsi il loro sguardo benevolo?

Nell’aprile del 1923 ad esempio, e proprio quando Aragon era nel pieno della crisi con i suoi amici avanguardisti a causa della vicenda del Paris-Journal, Jacques Rivière, direttore della rivista Nfr, pubblicò una lunga recensione del romanzo pubblicato qualche mese precedente da Aragon. La cosa, in fondo, non doveva sorprendere eccessivamente. Il libro era uscito con la Gallimard e nfr era la rivista di riferimento della casa editrice, ed era quasi normale che le uscite editoriali più recenti vi fossero recensite. La cosa appariva comunque come “sospetta” agli occhi di Breton e company, in quanto si capiva che le relazioni di Aragon con la rivista fossero qualcosa di più che formali, come se si trattasse di un puledro prossimo all’entrata in scuderia. Rivière non nasconde le distanze ma scrive candidamente nella recensione: “No, quel che mi attira in Aragon, non è facile da definire – e d’altronde, non neutralizza che in parte quel che invece mi ferisce. Quel che mi attira, sono i suoi doni prodigiosi, come non se ne trova che in due o tre scrittori di una stessa generazione, un’immaginazione poetica diretta, istantanea, involontaria” e aggiunge in maniera ancora più perentoria. “Aragon non scrive, vola; non conosco nessuno oggi capace di mettere la minore distanza tra i desiderata del pensiero e il loro compimento c’è in tutto quel che fa qualcosa di fatato, come accadeva solo a Rimbaud”. Qualcosa in più di una semplice sviolinata interessata a staccare Aragon dalle follie Dada, ma un vero e proprio attestato di stima. Perché un predestinato, un primo della classe, un genio superiore decideva di mettersi nel rango, sempre in secondo piano e talvolta scimmiottare idee e movenze altrui che non gli appartenevano assolutamente? Questo sembrava voler dire Rivière con la sua lunga e lusinghiera recensione. Aragon doveva prendere coscienza del suo valore e imporlo, non accettando di stare oltre in secondo piano, mentre lui era di gran lunga artisticamente superiore a tutti gli altri. Ma quanto contava la solo letteratura in quello che all’epoca Aragon stava cercando? L’ambizione letteraria, la capacità letteraria giustificava la rottura con un’avanguardia e con degli amici che gli avevano palesato la rottura con il suo tempo?

Del resto lo stesso Rivière questo dubbio lo aveva capito benissimo e nella recensione non aveva girato intorno alla questione, passando decisamente all’attacco del mondo di cui Aragon proclamava di voler far parte: “Dada è stato per Aragon un modo di manifestare, di pretendere, invece di creare. Lui che si accanisce così crudelmente su ogni pretesa, che si prefigge di ridicolizzarla, è bene che sappia che anche negare è una pretesa, e che il vero naturale, la vera libertà consistono proprio nel lasciarsi trasportare dalla corrente della vita, senza nemmeno prendersi la briga da farsene un giudizio d’insieme, e che lo scrittore più indipendente è colui che accetta il suo pubblico così com’è, e che senza fare nulla per ingraziarselo, rifiuta proprio quel legame che sottointenderebbe il volerlo scandalizzare a tutti i costi. Dio mi scampi dal recitare qui la parte del mentore. Non sono ancora così vecchio. Farà quel che vuole, e se vorrà gettarsi da una scogliera per dimostrarmi, con il suo suicidio, la sua totale autonomia, glielo lascerò fare, essendo certo che nessuna roccia verrà a vendicarlo schiacciandomi nello stesso posto. Vorrei semplicemente segnalargli un pericolo più grave, visto che è uno scrittore, della morte alla quale il suo sistema (quello Dd di cui abbiamo parlato) lo conduce: ovvero il pericolo di invecchiare nella rivolta. Per chi teme il ridicolo, non c’è niente di peggio. Se Aragon non cede a qualcosa di tenero in lui, di ingenuo, di facile, se si intestardisce a scacciare, se non si decide a lasciar vincere il sorriso sulla risata che professa, rischia innanzitutto di vedere appassire tutti i suoi doni (quelli che dirà di poterne fare a meno senza nessuna pena), ma soprattutto di vedersi fare eleggere quale pontefice dai letterati da bar, e dal clan dei falliti.”2

Sordidamente e apertamente accusato di opportunismo e voglia di mettersi in mostra dai suoi amici, Aragon non poteva non rispondere o prendere posizione di fronte alle parole di Rivière che in fondo lo mettevano davanti allo stesso bivio. Essere il “pontefice del clan dei falliti “ da bar o essere l’opportunista salottiero? La scelta ancora una volta si imponeva in tutta la sua nuda e drammatica evidenza e ancora una volta Aragon fece la sua scelta con altrettanta nettezza. Nettezza che paradossalmente si addice molto spesso bene a chi è stato accusato di ambiguità.

E guarda caso pubblicherà la sua risposta “aperta” a Jacques Rivière, proprio su quel Paris-Journal che lo aveva messo al centro della critica dei suoi amici. E per un giornale che, negli auspici del proprietario Hébertot doveva essere un giornale di tendenza e non di rottura, la risposta di Aragon fu di una veemenza e di una durezza quasi eccessive. Non a caso Hébertot ci tenne a prendere le distanze dall’articolo di Aragon premettendo: “Il nostro collaboratore Louis Aragon desidera rispondere qui a un articolo del Signor Jacques Rivière apparso nella N.R.F. di questo mese, Paris-Journal ritiene di dover informare i lettori che il testo seguente impegna unicamente il suo firmatario”. Una presa di distanza netta dunque, al limite della pubblica sconfessione verrebbe da dire. Sconfessato dagli amici e dai nemici insomma. Ma non poteva essere diversamente scrivendo una risposta del genere: “Se Francis Picabia, Paul Eluard, Pierre Reverdy, André Breton, Benjamin Péret, Jacques Baron, Marcel Duchamp, Robert Desnos, che mi conoscono chi più e chi meno, leggessero il vostro articolo, voi che passate per persona onesta, come prenderebbero i vostri assurdi elogi, e questa perfida manovra mirante a lodarmi a loro spese, cosa a cui non tengo per nulla? L’imprudenza che ho avuto nel pubblicare un libro vi dà su di me il diritto di evocare Voltaire che ritengo essere l’ultima delle stupidaggini. E, comunque, lei mi dà dei consigli che palesano il fondo della sua anima bella. Pensavo mi conoscesse abbastanza, anche se certamente poco, per sapere che le conseguenze dei miei atti non hanno nessun valore per me. Mi sembra poi curioso che lei parli poi di letterati da bar e del clan dei falliti. Fallito sarà lei, lei che deve a una salute da femminuccia il non poter frequentare i bar che sono comunque dei luoghi aperti, dove gente come Jacques Rivière sarà sempre spaesata come lo sono di giorno le civette. Venuto è il tempo di sbarazzarci del suo ideale da piccolo sorvegliante. Del resto me ne frego della mia “carriera di scrittore”, e in fondo, sono molto poco disponibile a discutere con un individuo che tra vent’anni pubblicherà degli studi su Edmond Jaloux, e farà far carriera a della gente come Cocteau, quando si saranno messi in testa di vendere in quantità industriale, non ho niente da risponderle quindi, non avendo posto nella mia testa dove poter elaborare dei piccoli schiaffi alla vostra altezza, a un articolo che, come tutta la sua persona del resto, mette in evidenza solo qualche parte del piede”.3

L’economia del libro porterà certamente il lettore a non fermarsi ad ogni passo appena letto, ma questa volta, invece, vale la pena fermarsi un attimo e magari girarsi intorno. Nel mondo civilizzato in cui viviamo, esistono dunque scrittori pronti a sacrificare una carriera scrivendo cose terribili a una persona che conta in nome di un ideale per quanto sbagliato possa apparire? Vedete intorno a voi questi novelli Riccardo Cuor di Leone?

1Tratto da “Système Dd” prima uscita in littèrature, n. 15, luglio-agosto, 1920.

2 Sezione “documenti” concernenti il lbro Les aventures de Télémaque, tratto da Oeuvres romanesques complètes, Vol. I, op. cit. pag 1063.

3 Ibid, pag 1064.

MARCO INCARDONA

“Banalmente, l’umanità è feroce”. Intervista a Veronica Falco

Marco Incardona: Quali sono le tematiche e le esperienze di fondo che la contraddistinguono, vuoi parlarcene?

Veronica Falco: Ho vissuto per molto tempo – circa 7 anni – in balia di quello che mi è davvero parso una lunga nottata. Quelle notti in cui fai un incubo su morti e fantasmi, ti svegli di soprassalto, sai perfettamente chi stava dormendo accanto a te ma preferisci metterlo in dubbio, e sono le 4 del mattino; ti lavi la faccia, ti vesti e vai ad aspettare il primo treno. Ti spacchi le ossa tutto il giorno in un bar e non capisci mai quando davvero termini il buio. Sembra una roba molto astratta, vero? Invece è proprio così che è nato Ammodorcas: da esperienze in un certo qual modo meravigliose e a volte ferine. Banalmente, l’umanità è feroce, quello che accade intorno a te mentre prepari un caffè per una borghese di Via Veneto, quello che accade dentro di te quando non ti pagano a fine mese, lo sbalordimento che provi a fine turno mentre piangi e guardi fontana del Tritone, quello che si spezza, è tutto materiale che non ho voluto esprimere con rabbia o angoscia, che non voglio – neanche ora Come nasce la raccolta “ammodorcas”?– reprimere. Io e lui siamo una coperta patchwork, e va benissimo così.

M. I. : Il tuo stile poetico è molto particolare, si potrebbe dire per certi e molti versi poco connesso con le correnti odierne della poesia italiana, è così?

V. F. : Ho letto e apprezzato (è così anche oggi) molta poesia italiana, in generale europea, se dovessi parlare di “formazione”, dovrei fare un collage di una miriade di libri che hanno aggiunto, poco a poco, qualcosa al mio stile, perciò dirò solo che il tipo di scrittura che mi ha immediatamente galvanizzata, è stata quella americana. A partire dalla beat generation.

M. I. : Questa, se non erro, è la tua prima raccolta edita, ma dalla sicurezza della tua si scrittura, si capisce facilmente che il tuo rapporto con la poesia è di lunga gestazione; quando e come ti sei avvicinata alla scrittura poetica?

V. F. : Esatto! La prima volta che scrissi qualcosa, fu quando avevo 13 anni, oramai 15 anni fa. Mi infiltrai nella penombra dello sgabuzzino di fronte ad un vecchio computer e cominciai a buttar giù quello che credevo fosse un romanzo. Avevo letto, fino ad allora, solo grandi classici e poeti come Neruda e Salinas. Ma c’era qualcosa in ciò che volevo raccontare, che non era lineare, che non voleva rimanere così nudo. Volevo trovare metafore non scontate, volevo percorrere stradine, volevo prendere le storie e spezzettarle, raccontarle in un altro modo. Mi mancava ancora tantissimo studio, tantissima fatica, ma senza dubbio iniziò tutto da lì.

M. I. : Mi ripeto. Il tuo stile ha tratti di originalità e una potenza evocativa, in certi tratti quasi disarmanti, ne sei consapevole? Cos’è per te la scrittura poetica?

V. F. : Fino a svariati anni fa, se posso essere onesta, usavo la scrittura poetica come una latrina. Avevo cominciato a prendere una direzione, ma l’impulso veniva prima di tutto, lo stimolo cognitivo non aveva nessuna “regola”, niente, schizzava fuori da me e basta. Non so cosa sia la scrittura poetica in generale, ma per me è stato come salire su un cavallo. Non sto dicendo come “andare a cavallo”, soltanto come salirci su in modo disinvolto, unire la voglia di fare una corsa in aperta campagna, al fatto di avere la giusta tecnica per non cadere e spezzarmi il collo.

M. I. : La poesia, come le altre arti, vive oggi in Italia un momento di indiscutibile crisi, ma certo non mancano anche gli spiragli e grandi opportunità, cosa ne pensi? Che esperienza hai avuto con i gruppi poetici che contraddistinguono la scena contemporanea?

V. F. : Penso che parte di questa crisi sia dovuta – oltre ad altri fattori sociologici ed economici- dai tanti non poeti che si credono in crisi. Mi spiego meglio: non sto parlando di bravura, ma di credere di meritare qualcosa: una pubblicazione, un applauso, un apprezzamento. Il progresso e il presente sono senza dubbio miei fedeli compagni, ma credo che andare ad un buon passo e andare di fretta, siano due cose differenti. Siamo concentrati su noi stessi – spesso errando – , vogliamo tutto e subito, e non riusciamo a captare bene il valore poetico che può essere intorno a noi, che puntualmente viene pestato. Ecco per me dove nasce la crisi poetica.

M. I. : Tu hai vissuto diversi anni a Roma, in che modo “trasfigurata” entra nelle tue poesie? Qual è il tuo rapporto personale con la città eterna?

V. F. : In tutti i modi immaginabili. Roma per me è stata una serata in discoteca, di quelle in cui ti sei trovato per caso– perché in discoteca non ci vai mai – in cui magari non hai bevuto niente, e sei lucido e percepisci perfettamente ogni singolo movimento di chi balla attorno a te, ma ci sono comunque luci, rumori, sudore, ti fanno male i piedi e ti fischiano le orecchie, eppure ti sembra che non debba finire mai. Non credo di aver mai citato Roma in qualcosa che ho scritto e se l’ho fatto, ero veramente distratta. Per me è un rumore bianco, è sottintesa. In Ammodorcas, per esempio, non è mai citata, ma posso dire che quest’opera non sarebbe mai nata, senza di lei.

M. I. : Viviamo in un’epoca turbolenta, l’esperienza pandemica sta cambiando molte delle nostre consuetudini, in un modo che forse non siamo nemmeno del tutto in grado di immaginare, in che modo la poesia può inserirsi in questo quadro in mutamento e raccontarlo? Quale spazio può ritagliarsi oggi e forse domani?

V. F. : Credo fermamente che come tutte le guerre vere e proprio o personali, che abbiamo storicamente affrontato, questo periodo non cambierà nome o valore alla poesia, ma cambierà (e già lo ha fatto), così tanto chi scrive, che alla fine neanche ce ne accorgeremo nel “qui e ora”. Se la nostra povera Terra resisterà ancora per altri 50 anni, potremo a quel punto sottolineare tutte le differenze, con un occhio esterno e distaccato, ma non in breve tempo.

M. I. : Cosa stai scrivendo attualmente? Scriverai mai qualcosa in prosa oppure lo hai già fatto?

V. F. ; Ho scritto molti racconti (svariati editi) e tre romanzi (di cui uno post-adolescenziale fu pubblicato) ma è da un annetto che sto vivendo sulla fune. Faccio moltissime cose, scrivo moltissime cose ma non potrei definirne ancora una completata in questo periodo. Credo che bisogni necessariamente accettare questi momenti circensi e arrivare al termine della fune per raccogliere le idee. Ciò che sto scrivendo non ha ancora un nome, ma accadrà presto.

M. I. : Salutaci con una citazione che ti ha colpito o un libro che ti ha cambiato la vita, oppure se ti va, con entrambi.

V. F. : “Prima che sia notte”, di Reinaldo Arenas. Non potrei citarne solo una frase, è un libro che mi ha spaccato e ricomposto: scrivere ad ogni costo, sugli alberi, nelle fogne, in fuga, essere liberi ad ogni costo, essere liberi e selvaggi per davvero, nonostante il cuore a pezzi.