TRE POESIE DI VERONICA FALCO

“Ammodorcas e altre poesie”, raccolta poetica di Veronica Falco che ho avuto il piacere di curare per le edizioni Ensemble di Roma ed appena uscito, rappresenta un’occasione unica per conoscere una voce poetica, particolare, dalla poetica originale e altamente evocativa.

Questa la mia introduzione alla raccolta che pubblico per intero:

“Leggendo e rileggendo questo libro, per certi versi inclassificabile, di Veronica Falco non ho potuto fare a meno di ripensare ed ascoltare la bellissima composizione di Richard Strauss Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione). L’opera era stata composta, su versi di Alexander Ritter, per commemorare la scomparsa dell’amico del compositore Friedrich Rosch.

Ma il parallelismo con l’opera di Strauss non deriva dalla commemorazione di un amico o un’amica scomparsa, quanto piuttosto dalla simbologia non dichiarata che si emana da quest’opera musicale.

Basterebbe soffermarsi su un punto: la poesia. Cosa spinge a scrivere poesie se non il desiderio di tradurre in parole sensazioni, emozioni e immagini vissute e scomparse nella realtà e presenti solo nella memoria. Scrivere versi significa in questo senso far rivivere il già vissuto, significa rivisitarlo, riproporlo, riattraversarlo con uno sguardo obliquo, consapevole della definitiva perdita. Nessun momento può mai ritornare lo stesso, nessuna sensazione potrà mai essere rivissuta con la stessa intensità. Eppure tutto quello che è vissuto ci costituisce per quello che siamo, si sedimenta come traccia indelebile, torna a galla come eco lontana, come richiamo assordante, a volte come angosciante logorio.

Se esiste una linea di demarcazione che addita i poeti come folli è proprio questa. Il senso comune, anche correttamente, nella consapevolezza che, concentrarsi sull’irrimediabilmente perso, non provochi altro che uno stato di smarrimento perenne, quasi mortale, rifugge la malinconia della memoria, evita accanitamente la rivisitazione tragica del perduto. A che serve guardarsi continuamente indietro? Bisogna andare avanti, desiderare ciò che ancora non è avvenuto, quel che di bello potrebbe accadere. Del progresso, lo sappiamo, abbiamo fatto una religione, e infatti ci aggrappiamo all’ultimo ritrovato tecnologico come una specie di dispensatore ultimo del senso della vita. Possedere il manufatto più moderno, significa trovarsi nella frontiera della vita, significa cavalcare l’onda lunga di ciò che avanza, ovvero dell’unica cosa che meriti di essere vissuta e celebrata. La malinconia è uno stato che colpisce coloro che non sono capaci di stare al passo con i tempi, che addirittura si mettono in testa di pensarlo il tempo, di riapparecchiarlo nella tavola imbandita della memoria per farne un lauto banchetto. Cosa da folli e da poeti appunto.

Marcel Proust si prefisse, ad un certo momento della sua vita, lui che la vita l’aveva vissuta al passo con i tempi, di rivisitare in scrittura le temps perdu e trasformarlo in modo altamente simbolico in temps retrouvé. E non a caso, finita questa sua immane opera di riattraversamento, egli disse alla sua governante fedele e comprensiva Céleste Albaret, che da quel momento il senso della sua vita era venuto meno e che sarebbe potuto morire in pace con se stesso.

Ed è appunto questo che spaventa, che allontana moli, per non dire quasi tutti, dalla ricerca della memoria, dalla rivisitazione delle emozioni, dalla poesia che metafora dell’esistere. Chi riattraversa il tempo, il suo tempo, il suo esserci stato, e quindi, in fondo, l’esserci sempre stato, ma non vogliamo scomodare Nietzsche in questa occasione, prefigura quello che è già scritto nell’irreversibilità del tempo perduto, ovvero che la fine nostra e delle cose è iscritta dal primo momento in cui mettiamo piede al mondo. Ed è una fine che, paradossalmente, non appartiene al passato, ma alla certezza del futuro. Riportare in vita le emozioni vissute, farne canto, parola significa sfidare frontalmente la fine delle cose che dal passato traccia l’unica via certa del futuro. La malinconia della memoria esorcizza l’inaccettabile responso dell’esistere e lo trasfigura in un campo di mediazione fatto di parole e di segni. Riattraversare il tempo della memoria, significa in questo senso trasfigurarsi in un tempo destinato a sopravviverci. Un anelito questo che serve a smussare il dramma della fine, dell’impossibilità di trattenere il tempo e il suo scorrere. Significa inoltre trascendere il tempo che scorre e gerarchizzarlo in un tempo capace di determinare quel che conta, quel che meritava davvero di essere vissuto. La malinconia del poeta non nasce dunque da un’incapacità di vivere il presente e desiderare di vivere appieno il futuro, quanto piuttosto il contrario, dalla capacità di viverlo appieno e di vederne in faccia il dramma. Mutare in parole il dramma della consapevolezza, la certezza della fine, trasfigurarlo in un tempo capace di dare un senso alle cose fuori dallo loro scorrere consueto, dal loro accumularsi, è quello che rende un poeta grande, capace di trasfigurare la fine, la propria fine, in tempo di trascendenza. Ed è per questo che le emozioni descritte dai grandi poeti e dalle grandi poetesse ci appaiono al contempo tanto prossime eppure tanto lontane. Esse sono universalizzate perché trasfigurate, attraverso un logorante lavoro di scavo sulla parola, in un tempo altro rispetto a quello che lo aveva prodotte. Emozioni che parlano del senso dell’emozione nella vita e dunque anche della nostra e dunque anche dello svanire delle emozioni che vorremmo trattenere nella nostra esistenza.

Abbandono il microcosmo per inoltrarmi leggera sul ponte,/ là sotto sono i campi di segale e la donna dell’Egitto;” con queste parole suggestive e definitive che Veronica Falco ci introduce al senso della suo poema Ammodorcas e anche alle altre poesie che concludono il libro. Scrivere poesie, trasporre i sentimenti e il vissuto in un piano più ampio, capace di trascendere il piano concreto è il compito che questo libro prova e, a mio avviso, riesce appieno a raggiungere. Abbandonare il microcosmo, intento apertamente dichiarato dalla poetessa, nell’epoca dell’individualismo sfrenato, significa dunque avventurarsi su un territorio pressoché sconosciuto e pieno di incognite. Inoltre per la Falco l’approccio a questa, che non fatico a definire una vera e propria cosmogonia poetica, avviene, la qual cosa aggiunge difficoltà alle difficoltà stesse dell’impresa, non attraverso l’utilizzo consapevole e già mille volte utilizzato dai poeti, dell’armamentario stantio di un certo simbolismo, quanto piuttosto al ricorso complessivo di una trasposizione allegorica complessiva della realtà vissuta. Allegorizzare il reale vissuto in una vera e propria cosmogonia poetica è compito difficilissimo, che restituisce, senza il bisogno di troppe lodi da parte di scrive, tutta la statura di stile e la complessità della poetica della poetessa.

Veronica Falco, con un linguaggio e uno stile poetico che deve molto ad una tradizione poetica, come quella americana, che va dal Paterson di Carlos Williams Carlos alle migliori poesie di un John Ashbery, è riuscita però a far suo quel gusto per l’allegoria, tutto barocco, e tutto meridionale oserei dire, il cui risultato è una scrittura dallo stile definito e di grande originalità. Basterebbe questo a fare di questo libro un grande libro.

In un panorama come quello italiano nel quale la piccola conventicola dei lirici e oggi quella più in ascesa degli slamers tende inevitabilmente ad omologare il proprio linguaggio poetico in una serie di formule ripetute e retoriche, che hanno però il favore di chi, appartenente alla conventicola e accoliti, vi si riconosce immediatamente e ne trae il piacere dell’appartenenza al gruppo, Veronica Falco ha scelto consapevolmente un’altra strada, un’altra scrittura.

Altra perché, pur non essendo la sola a trarre stimolo, anche imitativo, dal meglio della lirica americana e non solo, la poetessa è riuscita a farlo suo con un intento di poetica proprio, con un tentativo tutto mediterraneo di creare una cosmogonia allegorica del reale.

In maniera emblematica la poetessa ha scelto di chiudere il libro con i seguenti versi: “E alla fine qualcuno ieri notte/ ha sognato un grande dinosauro/ varcare tranquillo un cancello di ferro/ ed io ascolto questa storia come se fosse la ricerca/ del giorno/ del sogno primitivo/ perché chiedo ad ogni cosa di darmi la forza di avere ancora/ ossa/ e mi guardo così triste e pensierosa/ sfilare la maschera ogni sera/ e cercare di poter lottare per altre quattro.”

Sfilarsi la maschera in un mondo che di maschere sembra non volersene levare mai, ma crearne sempre di nuove, come in un quadro di Longhi, è questo il compito di sguardo che la poetessa ha voluto affidare al suo scrivere, al suo modo di attraversare la realtà con la parola. Sarebbe importante dunque leggere questo libro con la pazienza e l’attenzione che merita, ma so che in un mondo martoriato dal tambureggiare di un’incessante accelerazione sociale, come direbbe Hartmut Rosa, questo può sembrare una richiesta quasi folle, da poeti verrebbe da dire.

Se dunque in molti lasceranno scorrere queste parole come lasciano scorrere le emozioni e le immagini della propria esistenza, sono al contempo sicuro che in molti coglieranno l’importanza e dirompente vitalità di questa poetessa che si affaccia al panorama editoriale con un’opera già matura, con uno stile personale delineato e con un’originalità di poetica fuori discussione.

Vengono alla mente le parole del grande scrittore argentino Ernesto Sábato: “Solo chi è capace di incarnare l’utopia sarà pronto per il combattimento decisivo, quello per recuperare la parte di umanità che abbiamo perduto”.

L’utopia della poesia, se ancora una può averne e se ancora un ruolo può darsi, è proprio quella di allargare i confini del linguaggio, mettendo in crisi il suo comune uso strumentale, al fine di preparare il terreno a quel combattimento decisivo per il recupero dell’umanità perduta, quella interiore e quella esteriore, quella rimossa come ci avrebbe detto T. W. Adorno.

Ed è proprio il linguaggio di Veronica Falco, la sua capacità di trasporre la sua esperienza concreta su un piano altro, laddove i personaggi si trasfigurano in esistenze quasi essenziali, ora ataviche e immemori, ora trascendenti e irreali, a strutturare i contorni in espansione di questa possibile, e certamente auspicabile, utopia poetica. La poetessa non consegna facili approdi al lettore, non lo acquieta in evocazioni evidenti o sentimentalismi consueti. Sceglie da subito di farci partire dal cammino più erto perché, come si sa, chi bene inizia è a metà dell’opera. Leggerla significa entrare nel suo mondo, nel suo labirinto fatto di parole, nel suo groviglio di emozioni e di immagini quasi impossibili da dipanare. Leggerla significa crearsi di entrata una propria personalissima cosmogonia capace di criptare le immagini proposte e riproporle sul piano trasfigurato della propria esistenza. Leggerla significa per certi versi riscriversi, riprodursi su un altro piano, trascinarsi in una dimensione diversa dal piano agevole della lettura. Veronica Falco è una poetessa ambiziosa perché si rivolge esclusivamente a lettori ambiziosi, lettori che si auspicano ad ogni libro di scoprire cose nuove, di farsi cambiare integralmente fino a quasi rinascere. Sa bene di non essere una poetessa facile e per tutti, esattamente come sa bene che non tutti cercano curiosamente l’utopia capace di risvegliare il rimosso dell’umanità.

Da dove sono uscita? Da quale porta scalino finestra sono caduta in grembo/ a ciò che forse non è mai stato? / Come la luna penzolo ma al contrario/ adesso posso inoltrarmi di nuovo nelle lande della mia mente / perché non so più chi è il fantasma, ed è bastato molto poco/ per farmi sentire inavvertibile.”

E se per molti apparirà inavvertibile la forza dirompente di questo libro, per altri sarà impossibile da ora in poi fare a meno di seguire incuriositi questo fantasma poetico che ci passa accanto e ci suggerisce una realtà di osservare con lo sguardo che “come la la luna” penzola al contrario. Come in una danza magica e sciamanica Veronica Falco trasforma le persone e gli oggetti in una dinamica di senso inconsueta, quasi vorticosa:“nell’armadio bianco il caos fasullo/ dell’agnello piangente/ Pedante senza sosta- oh lui,/ “poveri a Basilea”/ con orecchie di liuto/ protese contro la donna dell’arpa/ È proprio così che si diventa/ locomotive/ e a volte anche fiori blu”

Verrebbe la voglia di camminare per mano con lei, magari proprio a Basilea, e farci suggerire dal suo sguardo il trapuntarsi, ora minaccioso, ora aurorale di una realtà che a mala pena siamo capaci di intravedere. C’è un dirompente bisogno di poeti in questo tempo per certi versi impoetico e proprio per questo, sfortunatamente, di veri poeti ve ne sono pochi. Incontrali è però l’unica vera ambizione che merita di essere perseguita. E questo perché attraversare il tempo significa vivere per un poeta e una poetessa come la Falco non può vivere la vita senza trasporla nella magia avvolgente del proprio paroliere alchemico. Come talvolta con le streghe (o quello che esse simboleggiano) che non si amano, si seguono, che non si adorano, ma alle quali ci si consegna per esserne divorati. Prendere o lasciare, perché il gioco irradiato dai suoi versi è sempre al rialzo, una specie di gara ad eliminazione nella quale arrivare in fondo finisce per avere senso solo se si è capace di non pensare al fatto che bisogna arrivare in fondo. Il contrario della vita, dove si fanno solo le cose chi si possono realizzare, si amano solo le persone che ti amano, e si concorre solo ai concorsi che si possono vincere. Questo libro non è fatto per chi ama calcolare, il suo calcolo è proprio quello di far dimenticare il calcolo a chi finora ha sempre e solo amato calcolare.

Se avete paura, tornate pure alle vostre faccende consuete, ai vostri libri amati, alle parole che vi consolano, agli scrittori che vi dicono che ci sarebbe tanto bisogno di cultura in questo mondo e poi sono i primi a non scrivere mai niente che con la “cultura” abbia qualcosa a che vedere. Ma queste sono chiacchiere e se avete paura leggendo questa inaspettate poetessa, vi basterà pensare che ogni tempo ha la sua strega, il suo demone, il suo folle poeta da mettere all’angolo in fretta e furia. “Quando ti dicevo che questo mondo non era per noi/ e tu per tutta la sera provavi a tagliare carote/ spostando dita su teche in legno curvo/ allora e proprio allora avremmo dovuto abbandonare/ la pietà, i suoi manti di cristallo/ e perderci nella bolla attraverso la vetrina”. Come vedete Veronica Falco sa bene quale sia la sua posizione in questa realtà che non riconosce il piano di realtà dei poeti. Ma i poeti sono sempre oltre la realtà del piano della loro realtà poetica. Seguirli sarebbe un dovere, ma raggiungerli sarebbe comunque impossibile. Impossibile come far tornare per un attimo in vita quei momenti che segnano e solcano l’esistenza di ognuno di noi. Il mio invito è dunque di leggere questo libro quando sarà venuto davvero dentro il momento per leggerlo davvero, per attraversarlo da parte a parte senza timore. Forse per comprenderlo davvero, anche se forse per i giovani è più difficile, bisogna arrivare a quel momento che il poeta spagno Jaime Gil de Biedma ha magnificato esplicitato nella sua poesia No volveré a ser joven:

Que la vida iba en serio
uno lo empieza a comprender más tarde
–como todos los jóvenes, yo vine
a llevarme la vida por delante.

Dejar huella quería
y marcharme entre aplausos
–envejecer, morir, eran tan solo
las dimensiones del teatro.

Pero ha pasado el tiempo
y la verdad desagradable asoma:
envejecer, morir,
es el único argumento de la obra.

E se è vero che invecchiare e morire, quello che in fondo si diceva all’inizio di questa prefazione, sono il solo argomento vero dell’opera come ci insegna il poeta di Barcellona, è anche vero che sapersi trasfigurare in parole che trascendano il piano tragico dell’esistenza, è il solo modo per lasciare una traccia che trasporti il piano dell’esistere individuale, verso il piano più universale dell’esistere in quanto tale. Eppure, come ci dice mirabilmente la nostra Veronica Falco: Non è ancora tempo di aspettare.

Ed ecco tre poesie di Veronica Falco:

Non sei Miller

Non sei Miller

e io non sono i vicoli di Parigi

e le foreste sono pastelli

ma solo se ci pensiamo troppo su

non sei Miller

e te lo dico sul serio

io non sono la Statua della Libertà

né un viaggio in Siberia

né una benda nera sugli occhi

non sei Miller

e io non sono i capelli rosa

della ragazza all’angolo della strada

la pioggia di settembre

né il nome indiano del nostro figlio mai nato

non sei Miller

ed io non sono una madre assonnata

né il canto delle sirene

né il mare che ora ti pare così noioso

che ora ti pare così reale

non sei Miller

ed io non sono ogni cosa che ti può salvare

io non sono il quadro storto da guardare

con ammirazione

non sono la poesia sul Ramadan scritta in treno

né la luce quando non si spegne del tutto

sono solo la rondine

sono solo la macchia bianca e nera

libera sullo sfondo cinerino

sono solo quello che non t’è mai servito

sono solo quello che mi serve

sono solo quello che sono sempre stata

sono solo il suono dei miei otto passi in avanti

e in avanti, e in avanti.

Animale totem

Ti ricordi di quella sera in cui

ti ho detto “Sono il tuo animale totem”?

Non credo che tu ti ricordi

perché l’ho appena pensato:

proprio adesso sono in ginocchio davanti a te

e ti sto porgendo tre pietre

ti ricordi di quando una sola lacrima

ha rotto la mia faccia in quattro pezzi?

perché gli animali totem variano

e a seconda della tua ispirazione

prima o poi io svanirò

ti ricordi di quanto potevo essere felice

se vedevo la tua ombra strappare il muro

proprio al centro, per poi camminare in punta di piedi

lungo il soffitto di legno

aggrappata alla luce della mia lampada?

tu eri testaccesa di fiammifero vibrante davanti a me

io ero la finestra, la cera, la penna senza inchiostro

e cercavo di capire che bestia volessi che interpretassi

sbirciando tra i miei tarocchi il tuo avvenire incerto

ti ricordi di quando abbiamo interpretato “L’amore ai tempi del colera”

2020? Oh, non è ancora successo e già è un fondo di bottiglia,

io e te galleggiamo tra i vetri rotti e i fiori luminescenti

come due vaschette di plastica nel Pacifico

e ci perdiamo tra gli altri detriti

o nella gola di un gabbiano

o nello stomaco di uno chef stellato

ma io non ricordo niente

vado a spasso tra le pozzanghere

e provo a mutare forma e mi vesto da volpe

ma non penso che tu te lo ricorderai,

perché non è mai successo, l’ho appena pensato:

proprio adesso sono in ginocchio davanti a te

e ti sto porgendo tre pietre

Noi non ci siamo incontrati mai

Noi non ci siamo incontrati mai

forse sfiorati, visti annegare da un lato all’altro

del nostro altare di pietre,

non ci siamo mai fermati

soltanto appesi

Il tuo corpo indossava pantaloni neri

le occhiaie scabre, i capelli raccolti

ma era solo lui a tenere sulla gruccia

del tuo scheletro la lana senile

Sul ciglio del nostro pozzo

non ci siamo incontrati mai

debilitati come due apparenze

io a piedi nudi, o forse eri tu

Ma adesso la strada è giunta al termine

e hai visto sul serio te stessa

un lenzuolo senza fronzoli svolazzante

disadorno, parallelo a te, ed hai capito

Noi non ci siamo incontrati proprio mai

né visti, prima di adesso

e non potevo credere che i miei occhi fossero

neri come i tuoi,

e avrei dovuto forse urlare al tuo orecchio

“sono il tuo fantasma!”

ma non avrei tirato fuori il tuo corpo grigio

dall’effettività

Noi non c’eravamo sognati mai

neanche abbandonati per un momento

al mondo delle idee

perché io, col corno di Invenzione sulla fronte

ho solo pensato a seguirti

e mai ho buttato la mia luce lampeggiante, festiva

davanti a te

Ma ti ho solo sorpresa,

triste e con la giacca agonizzante e logora

dei poeti e dei ciechi

e quando tu mi hai vista, ero solo il tuo riflesso

ed ero davanti a te come un dio maleducato

coi bordi gocciolanti la sera di Natale sulla tua finestra bianca

sfolgorante nel brusio dei tuoi incubi

eppure non ci siamo mai toccati o capiti,

non ci siamo mai incontrati.

Ribellarsi è giusto

Ribellarsi è giusto (on a raison à se revolter) questo è il titolo di un libro intervista con Sartre come protagonista di metà anni Settanta. Un titolo perentorio che viene da un tempo in cui le lotte sociali erano all’ordine del giorno e la rivolta era un orizzonte ritenuto necessario per modificare gli assetti incancreniti del’esistente.

Questa mattina ho utilizzato la copertina del libro nella sua versione italiana come post muto sulla mia pagina facebook per commentare silenziosamente l’attuale situazione sociale nella quale viviamo.

Il senso della cosa era evidentemente provocatorio.

Perché? perché il paradosso dell’epoca in cui viviamo, sta nello stridente iato tra il disseminarsi di segni e contraddizioni insostenibili, simbolo della crisi inarrestabile del totalitarismo turbocapitalista e l’incapacità degli attori sociali di leggerli e interpretarli ai fini di un’azione squisitamente rivoluzionaria. Ne consegue che, oggi, dire “ribellarsi è giusto” è un po’ come dissertare sul sesso degli angeli in altri tempi.

Le parole non solo danno un senso alla realtà come possibile interpretazione, ma la generano addirittura. Le parole danno una direzione di marcia nell’agire nel mondo, perché l’agire ha sempre e comunque bisogno dell’avallo validante delle parole. Oggi la parola RIVOLUZIONE è largamente scomparsa dal vocabolario dispensatore di senso del mondo contemporaneo. Letteralmente non significa più niente e non produce alcuna architettura concettuale capace di interpretare i fenomeni sociali odierni. Per questo anche quando la realtà palesa la sua necessità, essa rimane silente e soprattutto inerme.

Senza il senso profondo della parola rivoluzione, senza la sua capacità di prospettare un orizzonte mondo alternativo all’esistente sistema, le proteste, di qualunque natura esse siano, difficilmente potranno sfociare in una vera e propria ribellione organizzata.

Ma questo è il mio pensiero, e visto che il post “muto” ha generato molta discussione, come già proposto in altra sede, per non disperdere il dibattito nell’eterno fluire di facebook, vorrei trasferirlo sul mio blog in forma più coerentizzata e sistematica.

Aspetto dunque gli interventi di coloro che vorranno inviarmi il loro pensiero e li pubblicherò volentieri a seguire.


Ecco il primo contributo alla discussione pervenutomi, è di Ilaria Giovinazzo e lo pubblico con estremo piacere. Inizia con una citazione:

“Tutti gli uomini riconoscono il diritto alla rivoluzione,

quindi il diritto di rifiutare l’obbedienza,

e d’opporre resistenza al governo,

quando la sua tirannia o la sua inefficienza

siano  grandi ed intollerabili.”
Henry David Thoreau

Questa riflessione nasce da un confronto dialettico con Marco Incardona sul tema della necessità della ribellione e della disubbidienza civile e sulle ipotesi circa un nuovo modello economico rispetto all’attuale sistema capitalistico. Tutto nasce da un libro (tutto nasce da un libro ricordiamocelo! anche le Rivoluzioni!) di conversazioni con Sartre, dal titolo “Ribellarsi è giusto” sulle rivolte della fine degli anni sessanta del Novecento.

 Siamo in un’epoca strana. Siamo in un periodo strano, complesso e foriero di contraddizioni. Non che periodi precedenti a questa nostra epoca attuale lo fossero meno.

Ma, questo momento storico possiede alcune caratteristiche specifiche, che ci portano a fare alcune riflessioni. Prima avevamo gli ideali e i sogni e si combatteva per essi. Oggi questi ideali sono andati in frantumi, li abbiamo sperimentati e ne raccogliamo i cocci.

Abbiamo assistito nel nostro recente passato al crollo del sogno comunista e tocchiamo con mano oggi come questo sogno si possa trasformare in incubo con facilità se analizziamo l’evoluzione della politica cinese, diventata ormai a tutti gli effetti una dittatura comunista capitalista. La Cina di oggi vanta il maggior numero di miliardari del pianeta e questo la dice lunga.

L’altra grande super potenza, gli States, si vantano della loro Democrazia che va sempre braccio a braccio con lo stesso capitalismo in forme diverse, con medesimi esiti.

Due forme di governo diverse, un sistema economico basato sulla creazione e l’accumulo di capitale, scopo: la ricchezza per pochi, lo sfruttamento per molti.

Esistono esempi positivi? Uno, esemplare, durato troppo poco. Un sogno. Una rivoluzione pacifica e democratica: il Cile di Salvador Allende.

Come ebbe a dire Sepulveda in un’intervista: “I mille giorni di governo di Allende misero in luce che governare attraverso una rivoluzione pacifica non è un’utopia.”

Di cosa abbiamo bisogno oggi? Cosa va ripensato?

Che senso avrebbe oggi una rivoluzione? E che tipo di rivoluzione serve?

Alcuni tra i miei poeti amati sono stati dei combattenti, impegnati politicamente e sul fronte dei diritti umani, Neruda, Garcia Lorca, Hikmet. I poeti sono dei grandi rivoluzionari. Affermano il Sogno, l’Ideale oltre ogni ovvietà, oltre ogni silenzio imposto, oltre ogni conformismo. Autentici, fraterni, santi a piedi nudi armati solo di parole e fiori.

E bisogna essere un po’ poeti per immaginare cose grandi.

Grande parola Democrazia, governo del Popolo. Grande parola Rivoluzione, protesta del Popolo per un cambiamento sociale, più giusto. Grande parola Libertà, assenza di costrizioni o impedimenti all’essere ciò che si è e si vuole essere e a cui si può aspirare.

Come possono queste grandi parole stare accanto alla parola Capitalismo?

Può esistere un Capitalismo illuminato? E non sarebbe in fondo alla stregua di una Monarchia illuminata che pur sempre Monarchia rimane?

Non lo so ma ci si può provare. Il modello si chiama Capitalismo Etico.

E bisogna provarci. La vera Rivoluzione economica oggi sarebbe questa.

Realizzare un sistema economico realmente democratico in cui i capitali e i profitti vengano redistribuiti equamente per garantire benessere a tutta la popolazione. Lo si dice ma non lo si fa mai davvero.

Non lo si fa perché chi possiede Potere e Denaro non lo cede volentieri. E dunque? Chi sorveglia, chi controlla, chi redistribuisce? La Democrazia. Nessun altro ordinamento politico può farsi garante di questo controllo. E nonostante non sia un sistema perfetto, ma perché l’uomo stesso perfetto non è, è pur sempre un sistema perfettibile e noi a quello dobbiamo puntare.

Non è certo una dittatura la soluzione, non è certo l’anarchia (che non favorirebbe i deboli) la soluzione, e non lo è certo la monarchia.

Ma la democrazia fa errori. E i partiti politici fanno errori. Sono creati dagli uomini. E gli uomini fanno errori.

E quando questi errori vengono fatti per favorire i Poteri Forti e il Capitale a discapito del Popolo il Popolo ha tutto il diritto, e il dovere assoluto, di ribellarsi.

Quindi sì alla rivoluzione, sì alla resistenza, sì alle battaglie civili e sociali, sì alla ribellione contro leggi e sistemi ingiusti che vanno contro i diritti umani fondamentali e contro una società giusta.

Ma, e lo credo da sempre, nessuna Rivoluzione può funzionare senza Evoluzione.

E cito Albert Schweitzer “Tutti  i progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnica, alla fine, producono effetti disastrosi se non manteniamo un dominio su di essi mediante un corrispondente progresso della nostra spiritualità. Con il potere che esercitiamo sulle forze della natura, otteniamo anche un’autorità straordinaria di esseri umani che dominano su altri esseri umani.  […] Non è possibile che, combattendo una battaglia, possiamo evitare di danneggiarci reciprocamente nel potere economico o materiale. Può verificarsi tutt’al più che vengano scambiati i ruoli fra chi usa violenza e chi la subisce. L’unica salvezza ci viene dal rinunciare al potere che ci è dato gli uni sugli altri; ma questa è un’opera della spiritualità.”

Attenzione, non della Religione, della Spiritualità. Quella che ti spinge a dividere il tuo pezzo di pane col compagno di strada. Quella che ti permette di accogliere il figlio di altri in casa tua come fosse tuo figlio. Quella spiritualità laica ( o meno) che considera il bene dell’altro alla stessa stregua del tuo stesso bene.

Se non cambiamo il cuore dell’uomo nessuna Rivoluzione funzionerà mai.

Il cuore dell’uomo cambia se lo educhiamo al Bene. E ribadisco quello di cui sono sempre stata convinta, che la Cultura e l’Educazione siano le chiavi fondamentali per una società migliore.

Un uomo saggio non ha bisogno dello Stato che lo controlli. Un uomo saggio è al di sopra delle Leggi perché la sua legge interiore non gli permette di fare male. Un uomo saggio sa che deve pagare le tasse per redistribuire la ricchezza a chi è meno fortunato. Un uomo saggio non toglie libertà all’altro per il proprio profitto. Un uomo saggio si comporta rettamente e agisce nel Bene perché ha una Morale, un’Etica, un senso della Responsabilità che nessun Governo deve imporgli, poiché Egli incarna questi principi.

Per dirla con le parole di Emerson:

“Lo Stato esiste per educare il saggio, e con la comparsa del saggio lo Stato muore. Quando appare il carattere, lo Stato non è più necessario. Il saggio è lo Stato. Egli non ha bisogno di eserciti, di forti, di flotte, egli ama troppo gli uomini [..]”

Quindi a chi mi chiede se l’Anarchia (e quindi un Governo senza Stato, senza leggi) sia possibile, ho sempre risposto, che un mondo senza leggi sarebbe possibile solo se fossimo tutti estremamente evoluti. Ma non lo siamo. Siamo umani. Perfettibili anche noi certo.

Quindi da esseri umani perfettibili lasciamo stare le Utopie inattuabili e usiamo quelle che abbiamo a disposizione. Facciamo una Rivoluzione sì, facciamola ogni giorno.

Ribelliamoci sì, ma ogni giorno. Alziamo la voce quando è necessario, fermiamo il Paese quando è necessario. Abbiamo armi potenti per combattere il Sistema quando il Sistema non funziona come dovrebbe. Il popolo ha il potere di fermare tutto e di cambiarlo. Usiamolo. E impegniamoci a diventare persone migliori.

Senza Evoluzione nessuna Rivoluzione è possibile.

1° luglio

Vivo di Tempesta e Sogni
di gioie inattese
e ombrelli rossi appesi alla finestra.
Sono straniero nella mia stessa Patria
un esule della libertà
senza più diritti voce speranza.

Vivo di tempesta e sogni
col vento in faccia.
Sono figlio di questo nuovo tempo
sono figlio di genitori importanti
vivo di Tempesta & Sogni
Democrazia & Libertà.

(Il 1° luglio 2020 a Hong Kong viene imposta la legge sulla “sicurezza nazionale” che impone libertà limitate e mette fine alla parziale autonomia del paese )

La poesia è rivoluzione

Alziamo le mani

Tutti

Oh sì siamo colpevoli vostro onore

volevamo cambiare il cuore degli uomini

con le nostre scarpe vecchie

coi nostri abiti logori

e pochi spiccioli nelle tasche.

Ubriacati dal purissimo blu del cielo

abbiamo riso, cantato, ballato

e spezzato catene.

Sì vostro onore

siamo colpevoli

siamo poeti

siamo sognatori

e la poesia

è rivoluzione.

Ilaria Lila Giovinazzo

3 novembre 2020″

Ilaria Giovinazzo: Roma, 1979. Antropologa, è scrittrice, poetessa, artista. Ha pubblicato i romanzi Anime perdute (2001), Non posso lasciarti andar via (2005) e Donne del destino (2007) e diverse poesie in antologie. Come un fiore di loto è la sua prima raccolta poetica.

Le Ballet Mécanique

Ho deciso di pubblicare questo testo che ultimamente mi è capitato di leggere in alcune letture pubbliche. Perché lo faccio? E’ una domanda alla quale non saprei francamente rispondere. Ma credo semplicemente perché non ho più tanta voglia di fare pagliacciate in lettura o forse semplicemente per mettere qualche puntino sulle I.

Le Ballet Mécanique nasce come un testo poetico di scrittura automatica ispirato dall’ascolto/visione ripetuto e ossessivo, durante una sera di fuga in un bar dagli sproloqui giovanili, del ballet mécanique dei celebri Fernand Léger, autore/regista del montaggio delle immagini e Robert Antheil, autore delle musiche di accompagnamento. Il blog mi permette di pubblicare contemporaneamente l’ispirazione e il risultato di questo incontro.

Come nel video (lo potrete verificare agilmente) le immagini sono prive di uno scenario organizzato ai fini di un copione, così la scrittura automatica si presenta come una scrittura NON SORVEGLIATA dalla vigilanza autoriale dell’io poetico. Il testo è stato dunque stato scritto di GETTO, senza nessunissima correzione di sorta (fatta eccezione per un errore di battitura) e non presenta, di conseguenza, nessunissimo tipo di punteggiatura e struttura intenzionale di comunicazione.

Il richiamo del testo, mio primo e forse ultimo esperimento di scrittura automatica (non la consiglio a nessuno), è dunque da rintracciarsi integralmente nell’ambito della irripetibile esperienza surrealista. Se il sottofondo del testo può invece ricondurre a influenze più beat è solo perché, evidentemente il mio “inconscio” rigurgita di intenzioni bellicose e rivoluzionarie (intendo nei contenuti del testo, perché i surrealisti partecipavano anch’essi per la maggior parte ad un orizzonte di rivoluzione sociale e di pensiero) che sopprimo ritenendole al momento inapplicabili nel mondo che mi circonda. Il soppresso storico, quel soppresso dai fatti di Genova, e forse prima dalla caduta del Muro di Berlino risorge come voce in me traspersonale e contraria alla vigilanza scettica del mio io.

Altro evidentissima sedimentazione che emerge prepotente dal testo, è quella che rimanda al senso di “inadeguatezza prometeica” dell’essere umano davanti al mondo governato dalla tecnica di cui ci ha mirabilmente parlato Gunther Anders. I nobili francesi dicevano, per difendere il sistema di lungo corso dell’Ancien Régime che alla fine tout se tient , dal mio testo che si capisce agilmente che ne mondo governato dalla tecnica tout ne se tient pas , almeno secondo le categorie umanistiche con cui ci illudiamo ancora di governare i processi globali. Davanti ad una tecnica che lo rende insulso, l’essere umano odierno, per rispolverare l’illusione di essere al comando della stanza dei bottoni, non può far altro che affidarsi agli due baluardi che gli restano da giocare: l’individualismo e il principio di piacere. Siamo noi ad usare le cose e lo facciamo al solo fine raggiungere il massimo di piacere!!!!!

Quanta stoltezza e forse è per questo, che a un certo punto dell’esistenza, mi sono sentito costretto a scrivere qualcosa come il Ballet Mécanique. Eccolo:

“Venite figli spuri della domenica

accorrette come tante lumache vaginali

portate lo zolfo del ricordo in superficie

barattate la polvere di stelle

con escrescenze pubiche per distratti

dell’ultimo momento

Portate i biglietti colorati

lo spettacolo è solo cominciato

i bulloni lacrimano pioggia acida

piovono chiodi arrugginiti

sui campi devastati di anfetamine

eliche stritolano le budella

le sirene acclamano il mercato

tubi giugulari succhiano

l’iridescenza che devasta la pianta del ricordo

amenità in disuso a largo

pistoni conficcano il letame della mente

la ketamina gioca a calcio con i neuroni

l’algoritmo che attorciglia l’intestino

se Dio esistesse

mangerebbe sicuramente la nutella

che poi la TAV è una promessa

di felicità non mantenuta

e i pinguini hanno diritto a un posto al sole

i bambini sniffano colla a Nairobi

e le piante danzano il loro ritiro

inceneritori termici per podcast atomici

la bomba nucleare è un post malriuscito

vomito sperma galattico

tra un video porno e un discorso di Craxi

in liofilina

In Lamù amo i baci nati morti

che poi l’ozono non lo porti mica a scuola

mangiare gatti è una cosa sopravalutata

il marketing accarezza le tempie del ricordo

l’economia è un baratto emozionale

mentre per uno schizzo di eroina

le tigri non sono nemmeno più assassine

la musica trap è il rovescio della medaglia di Trump

con Bush non sono mai andato a cena

e le discariche di scorie radiottive

non le tengo mica in casa

le promesse sono come la Pedemontana Veneta

che poi il Mose è interstiziale mercanteggio

di fantasmi del buongoverno

e la falce e il martello hanno divorziato da tempo

la rivoluzione la trovi in scatola al supermercato

la democrazia la spaccia il mio pusher di fiducia

dietro l’angolo anche i cani sembrano Willy il Coyote

parlerei anche di sesso degli angeli

ma me lo impedisce l’equazione del ricordo

nel video di Pasqua esplodono

escrescenze talmudiche in plastilina

il baratto è un affare insensato

i letti sono pieni di scemi scheletrici

i cilindri fanno tutt’uno con l’infinito

e Leopardi è un domatore di circo

nemmeno i pagliacci parlerebbero con i poeti

mentre i bambini sniffano ancora colla a Nairobi

l’infanzia non conosce la negazione hegeliana

e le categorie aristoteliche sono materia

da diporto per i tronisti televisivi

ciminiere estetiche sbuffano

un coraggio di cambiare il mondo sconosciuto

gravano immagini caleidoscopiche

orgie concepite per Eliogabali con disturbi

ossessivo compulsivi

se penso che il mondo sia una merda

è giusto contrabbandare figurine panini

anche le pantere fanno conferenze sull’estinzione

l’amore è una danza per foche a digiuno

mentre il giubilo urla le sue vittorie

e Apolinnaire muore di influenza spagnola

a Madrid amavo i petali marziani

i cilindri invitano al cinema i pianeti

lo spettacolo è appena cominciato

in Vietnam le bombe al napalm

erano poco più che immondizie musicali

ordalie compatte in compact disc

su youtube trovi anche la chiave di violino

se cerchi bene i quanti li porti nella mente

il relativismo è un buffone che fa bene

il suo mestiere

anche il cameriere ha diritto a farsi di cocaina

i culi non sono sempre di moda

e la bandana di Berlusconi appare

come un lampo all’orizzonte emozionale

dove acidi muriatici liquefanno i testicoli

in nome dei parametri e i vincoli di bilancio

anche la dopamina vuole andare in vacanza

nel nichilismo anche la Salerno-Reggio Calabria

deve avere un inizio e una fine

il petrolio è una pietra flosofale che irradia

inquinamento cosmico per depensanti globali

e non è vero che la borghesia

generi falsi miti di progresso

il progresso è poco più di un avviso di giacenza

a Matera anche le grotte stanno a guardare

il frastuono delle fabbriche digitali

il salario minimo è un diritto garantito

consiglio ai robot di andare in sciopero

ai medici di andare in malora

e agli psicofarmaci di diventare lecca lecca

Gig Robt d’acciaio era un buontempone

in cerca di avventure da raccontare ai nipoti

negli scaffali della memoria intorpidita

non c’è posto per le gite domenicali

i documentari di Quark sono una fucina esatta

per capire il gioco coatto della seduzione

l’imperialismo dello sperma è un problema marginale

l’effetto serra incide sui gusti musicali

come un tritacarne evangelico in cerca di proseliti

gli stuzzicadenti sono un’invenzione borghese

anche i sifoni chiedono di fare il bagno nello champagne

la produzione cresce i ricavi aumentano

e i virus si dovrebbero sempre tenere alla larga

che poi il letargo è una partita persa a subbuteo

e fare sesso con una barbie è un dovere dello spirito

anche il cuore è un sottaceto da non sottovalutare

Uno come Hitler capita una volta sola nella storia

e nessuno ha il più il coraggio di bruciare i libri

la pubblicità mi convince che il migliore dei mondi

è a portata di mano è come mettere

la lingua in bocca a una sirena

sperando che non cerchi cocaina

perché la cassa integrazione è un brivido

che arriva sempre troppo tardi

e anche se i treni arrivano in orario

di quando c’era Lui me ne fotto

come di un patriota maltese in vacanza alle Maldive

proletari assecondate compatti il bisogno di produzione

la bellezza è un bene di prima necessità

e del resto anche a Odessa i bambini

sniffano colla a buon mercato

le emozioni sono in svendita su amazon

e puoi ordinare anche l’estasi dionisiaca

se conosci l’algoritmo decisionale

tra un meeting di CL e uno di terrapiattisti

continuo a non capire il senso preciso

della terapia di gruppo

anche la De Filippi deve avere un inizio e una fine

le formiche aspettano pazienti il trionfo della Rivoluzione

e i burattini dissertano sulle sorti umane e progressive

motori si scaldano bulloni si saldano

l’automazione è un destino metafisico

l’acqua di colonia al bergamotto

è la panacea di tutti i mali

pure Stalin defecava i suoi eccessi

fare le vittime è una parte difficile da recitare

per chi crede nell’orizzonte mellifluo del reale

ve lo ripeto lo spettacolo è appena cominciato

andate a fare in culo”

L’inconscio o il subconscio o substocazzo di Marco Incardona

Un magistrale scritto di Max Di Mario su “Qualcosa era successo a Sant’Ambrogio”

Pubblico con estremo piacere, ma dovrei dire con estrema gratitudine, questo scritto di Max Di Mario sul mio romanzo “Qualcosa era successo a Sant’Ambrogio”. Sono particolarmente grato a questo scritto perché coglie appieno il senso profondo che mi aveva portato a scrivere il romanzo. “Qualcosa …” è un romanzo sulla scrittura, sulle ragioni profonde che portano a scrivere malgrado tutto e malgrado tutti. Scrivere per qualcuno, che non ti conosce o ti conosce quasi nulla (cosa importa l’epoca?) e che leggendoti capisce di te, dei tuoi aneliti più profondi molto di più di chi ti attornia e avrebbe modo di conversare con te in ogni modo. Ma per uno scrittore a parlare deve essere lo scritto, e sono grato a Max Di Mario, perché ora so che quello che volevo dire appare integralmente nel mio romanzo appare chiaro a chi è in grado di volerlo leggere e capire. Che importa che a farlo sia uno, nessuno o centomila? Sapere che nel mondo c’è e ci sarà sempre un Max Di Mario che può leggerti restituisce tutto il piacere e il senso del continuare a scrivere… GRAZIE MAX…

Ed eccolo lo scritto:

“Voglio essere onesto.

Incardona celebra la regalità di un mondo che non c’è più, e allo stesso tempo è come se ti istigasse ad odiare con ferrea determinazione il mondo in cui sia lui, che noi, viviamo. Eppure il motore del romanzo non è l’odio, né la nostalgia. È piuttosto un sentimento indescrivibile nella lingua italiana, che fa appello in parte alla rabbia, ma anche alla disperazione, alla sconfitta e allo stesso tempo all’ardore rivoluzionario e idealista di chi combatte la sua battaglia con la coerenza di un kamikaze. L’eccellente metafora impiegata da Incardona per evocarlo è il deserto. Il deserto è vuoto, monotono, monocromatico. Al deserto è legata la solitudine dell’anacoreta, ma anche la follia del profeta biblico che infrange il bastone sulla roccia alla ricerca del miracolo dell’acqua.

Il deserto è insomma l’unica alternativa per chi decide di non omologarsi alla proposta della civiltà. È il dominio inospitale del no, oltre i confini del mondo umano che ci ha bandito, rispetto al quale siamo risultati in qualche modo incompatibili (per ragioni diverse che Incardona meticolosamente annota, quali la delusione o il sopravvenire di un’insopprimibile nausea sartriana, non esauribile sotto le categorie semplicistiche del solipsismo e della misantropia). Ma ogni no, specialmente il no più radicale, come il disco ad una sola faccia del racconto di Borges cela anche, sempre, un infinito e mai completamente afferrabile sì a qualcos’altro. In questo caso ad un progetto di umanità differente. Un progetto impossibile perché completamente ignorato dalla vasta gamma di possibilità che il mondo di oggi sembra offrici.

Non si tratta dunque di nostalgia, ma di fede incrollabile nella verità di una prospettiva politica (nel senso più ampio e meno tecnico del termine) ed esistenziale che non è andata in porto, che prima la modernità, poi la postmodernità è ora questa iper o surmodernità hanno spazzato via dalla faccia della terra, apparentemente per sempre. Lasciando fuori dalle roccaforti murate delle proprie metropoli soltanto un inospitale deserto.

Inospitale, ma non disabitato.

Lo abita infatti Marco/Mario e lo abita Oliviero, insieme ad altre creature della notte, reali o immaginarie (c’è differenza?) come la cochotte fantasma della Pensione Annalena. Personaggi che non hanno nulla di eroico, ma sicuramente qualcosa di tragico. Qualcosa dei grandi protagonisti delle tragedie greche così amate (per motivi diametralmente opposti) da illuministi e romantici. E la notte insensata dei bagordi fiorentini, le danze dionisiache tra i cocainomani dove giovani e mefistofeliche (né buone né cattive, ma al di là del bene e del male) lolite usano Schelling per farsi aria, dove la tragedia assume toni farseschi e allo stesso tempo epifanici (la “tragedia del Blob” o “del Salamanca”, banali e umanissimi incidenti che assumono il significato totemico di spartiacque per intere esistenze) diventano l’unico modo possibile per esorcizzare lo spettro totalitario e ineluttabile del presente.

Il romanzo di Incardona, infatti, può essere letto come un gigantesco esorcismo.

L’esorcismo di uno sciamano che parla una lingua che il mondo non sa più comprendere e che rende, a conti fatti, lo stesso esorcismo, con tutte le sue maledizioni e macumbe più raffinate e potenti, assolutamente inefficace.

Ma non è questo, a conti fatti, il presupposto essenziale di ogni scrittura “viva”? La ragione più importante per mettersi a scrivere? Forse per il copyrighter di una grande azienda, interessato a vendere un prodotto, può essere rilevante qualcosa come l’efficacia. Ma non certo per il poeta-filosofo. Incardona sa benissimo che la sua scrittura è impotente, ed è proprio questa la sua forza: la stessa forza del deserto. Quanti granelli di sabbia ci vogliono per creare una duna?, possiamo infatti chiederci parafrasando Eubulide.

È dall’impotenza che scaturisce il potere di rovesciare i valori dominanti: non dalla rivoluzione delle armi (da sempre il più grande mezzo di perpetuazione/permutazione del potere costituito) e nemmeno dalla potenza persuasiva di chi sfrutta le regole del mondo a sua vantaggio, bensì dall’inefficacia totale e inconsistente degli spettri. I fantasmi del passato, le coscienze dei dimenticati, i progetti di un’umanità differente che si sono arenati, che oggi come oggi ci sembrano preclusi.

L’ostentazione di sapere quasi fastidiosa del protagonista del romanzo, la sua intolleranza e la sua misoginia così condannabili, sono in realtà corollari di un assioma più profondo e radicale: l’inoppugnabile dominio del tempo. Che passa, ci rende sempre più dimenticabili, fino a trasformaci a nostra volta in fantasmi. Il tempo non ha padroni, schiaccia tutto come un rullo e ne fa briciole irriconoscibili. E così come può rendere Schelling buono solo per farsi aria ballando il reggaeton, renderà un giorno vecchie e decrepite le lolite che nascondono l’utilitarismo dietro la seduzione, i Caio Silliù, le Milene e l’intera società in cui viviamo, la nostra letteratura, i nostri valori, le nostre città. Ed è nel momento del crollo e della rovina, quando capiamo di non essere più giovani, che come Incardona nel suo esilio parigino ritroviamo conforto nella memoria di qualcosa di dimenticato, di ancestrale, come l’infanzia.

A questo proposito Incardona è un’inguaribile illuminista, un fedele seguace di Rousseau a cui però, al contrario del padre del bon sauvage, è stata data la tragica possibilità di assistere a tutto ciò a cui l’illuminismo (e le sue negazioni) avrebbero portato. Lo ripeto: mai nostalgia dunque, ma consapevolezza di avere bisogno del passato per costruire un futuro, per quanto diverso e attualmente inconcepibile. Distorcendo Schiller: essere col tempo (al suo stesso tavolo, nel suo letto) senza esserne il prodotto. Credere ai fantasmi senza credere all’anima; credere nell’immortalità senza credere nei miti senescenti dell’inferno e del paradiso, né alla loro vacua bramosia di perdonare e punire a tutti i costi. Mentre l’unico colpa è quella di essere nati, o meglio: di essere nati animali sociali (o semplicemente, come si lamenta Incardona, socievoli).

Per raggiungere questa “saggezza insavia” bisogna infatti saper vivere nel deserto, dove la società è bandita e il tempo non scorre. Solo così si può guardare la civiltà che invecchia, le mura che si sgretolano e noi con esse, sottraendosi però all’ineluttabile destino del cortocircuito storico, dell’eterno ritorno del banale.

Bisogna odiare la vita per riuscire a viverla come un destino. Ritrovare il germoglio del possibile nell’impossibile. Dire nietzscheanamente sì, pur afferrandosi disperatamente al più radicale dei no.

Per poter riscoprire nel flusso incoerente del tempo la rivoluzione silenziosa di un istante che a tutti gli altri era sfuggita.

Che cos’è successo, quindi, a Sant’Ambrogio? Assolutamente nulla, eppure tutto. È successo che qualcosa di potenzialmente irrilevante è diventato la condizione di possibilità per una nuova vita, per una nuova scrittura e, ricorsivamente (adulando un po’ in questo l’ossessione postmoderna per il meta-), per lo stesso romanzo che in questa nullità/totalità dionisiaca si autodistrugge e autocelebra.

Ciò che è successo è una piccola crepa sul volto imbellettato del presente. La nascita di un piccolo granello di sabbia, e con esso della possibilità di un nuovo deserto che, una volta scomparse le vecchie città, si trasformi in terreno fertile per un futuro diverso. Magari, chi lo sa, migliore.

Un futuro abitato da nuove lingue e da nuovi miagolii pronti a distruggerle. Da nuove Firenze traditrici, debosciate, erratiche, e da nuovi fantasmi e poeti pronti a infestarle.”

Max Di Mario

Le Macchinazioni di Baret Magarian

Quando si ha a che fare con un libro di questo respiro, di questa ambizione, è necessario essere perentori: Le Macchinazioni di Baret Magarian, edito dalla casa editrice Ensemble di Roma nel 2019, è un libro importante. La sua importanza non risiede in una fortuna critica postuma, in un successo editoriale, fenomeni ancora da valutare in prospettiva, quanto piuttosto da una precisa volontà del suo autore.

Baret Magarian non si è affatto accontentato di raccontare la realtà sociale e storica nella quale viviamo e che ci pervade, ma ha provato a pensarla, a trasporla metaforicamente in un’opera letteraria, che non si arroga nessunissima pretesa descrittiva o sociologica, che non ricalca strutture interpretative preconcette sulle quali inserire il tessuto della narrazione. E per uno strano paradosso, mentre leggendo i romanzi che direttamente si rifanno a fenomeni sociali reali, a fatti storici, o a battaglie per i diritti e per l’uguaglianza facilmente riconoscibili, si ha sempre l’assoluta impressione di trovarsi davanti a una fiction, nel libro dello scrittore anglo-armeno, dove la fiction è dichiarata esplicitamente e orgogliosamente sin da principio, la realtà sembra plasmarsi in modo così vivido da risultare inquietante.

Leggere Magarian, provoca infatti la stessa inquietudine di leggere Kafka. Ed infatti entrambi gli autori rinunciano immediatamente ad avere qualsiasi attinenza stretta alla realtà e costruiscono un mondo di finzione letteraria sofisticato, quasi autoreferenziale. Ma mentre Franz Kafka nei suoi scritti denuncia l’aspetto burocratico-amministrativo della razionalità moderna e tecnologica, nella quale tutto viene catalogato, registrato, dossierizzato, e l’individuo ridotto alla sua funzione, Magarian si rivolge, per così dire, ad un altro “mito” fondatore della modernità, quello dell’homo faber. Tutto può essere fabbricato (non a caso il titolo originale dell’opera è The Fabrications) anche il successo, anche il motivo del successo stesso e questo perché l’essere umano è ormai libero dai vincoli della natura e di Dio. Infatti nel libro, il protagonista, Oscar Babel, viene artatamente “fabbricato”, prima da uno scrittore in decadenza Daniel Bloch e poi da un mago della comunicazione Ryan Rees, come un guru contemporaneo, una specie di profeta capace di impressionare una Londra cinica, eternamente distratta e in cerca di novità di cui parlare e messaggi ai quali aggrapparsi.

E se è vero che l’individuo moderno non può fare a meno “individuato”, ovvero catalogato, registrato, inserito in programmi, in forme di amministrazione del suo tempo attraverso il lavoro, l’etero-direzione del suo tempo “libero”, è altrettanto vero che, a partire da queste regole vigenti e necessarie, l’individuo moderno aspira continuamente alla sua emancipazione da esse, ad esserne l’eccezione che conferma la regola. Ambiguità irresolubile quella dell’individuo che subisce la logica pervasiva della burocrazia amministrativa che lo “individua”  e gli affida il compito, e quella dell’individuo come eccezione che si sottrae alla logica burocratica, affermandone al contempo la regola.

 

macchinazioni 1

Tutte le pratiche “individuali” del’uomo moderno si basano proprio sulle strategie di distinzione  delle norme burocratiche che vengono però ritenute necessarie, almeno per l’interazione con gli altri, con l’altro in quanto tale. In questa immanente ambiguità, l’individualismo si basa proprio su questo schizofrenico oscillare tra adesione pedissequa al sistema burocratico e strategie di emancipazione dalle sue morse. Il bisogno di star, di eroi moderni, di cantanti onnipotenti è dunque, se vogliamo mantenere vigente la logica di questa ambiguità, intimamente necessario all’individuo contemporaneo, come forma di immedesimazione e proiezione del suo desiderio di affrancamento, ma può esserlo solo in forma già burocratizzata. L’individuo la cui vita sottosta alle regole della burocrazia catalogante e onnipervasiva, avverte la star come un Dio dei tempi “moderni” che non sottosta alle regole burocratiche del mondo e per questo non è un individuo in senso stretto. Invece il cantante, la star del cinema, l’influencer di internet, non sono affatto fuori da questo sistema ma ne sono i garanti burocratici più potenti. Sono dunque dei “burocrati” con funzioni di colonizzazione dell’immaginario in un sistema di catalogazione e individuazione basato sulla produzione e il consumo. E siccome nel sistema moderno tutti sono individuati e catalogati, l’eccezione deve essere necessaria, ma tutti possono e devono incarnarla se solo lo vogliono.

Da quanto appena detto, si capisce lo stretto legame, anche se indiretto, tra l’opera di Kafka e quella di Magarian. Indagano, se vogliamo, le due facce di una medesima medaglia. Due facce nelle quali però, è solo l’affinarsi del sistema produttivo e tecnologica nell’interno di una società burocraticamente amministrata, a rendere possibile l’affermarsi della “casta burocratica” dello Star system. E non deve nemmeno sorprendere che, nel pensare il mondo circostante, Kafka non potesse che notare l’affermarsi del “mostro” burocratico, mentre Magarian non possa notare l’affermarsi il mostro del “successo” a tutti i costi, nella quale è la necessità del successo a generare i contenuti dello stesso e mai viceversa.

Con lo spostarsi dell’asse di identità collettiva, all’interno del sistema burocratico, dal mondo della produzione (industriale, sociale, culturale), a quella del consumo (di prodotti industriali, di mode, di cultura, di spiritualità ecc ecc), lo scrittore non può che spostare l’asse del suo pensiero in rapporto a questo spostamento di identità. Se il sistema di fabbrica provocava un evidente senso di alienazione, che poteva portarlo ad indagarne i motivi e a modificarli, oggi l’alienazione oggettiva nel lavoro viene rimossa, o meglio, viene accettata in nome di un’individualità che ritrova la sua centralità non nel lavoro, ma nel tempo libero, nel calcio, negli hobbies, nei fenomeni di consumo. Ed è questo a fare mirabilmente Magarian con il suo romanzo.

Ma se è vero che il sistema normativo-burocratico che soggiace alla produzione capitalista, è riuscito in maniera pervasiva a colonizzare l’immaginario collettivo e a inserirlo esso stesso nella produzione, è vero che le capacità normative e di controllo burocratiche hanno raggiunto oggi una capillarità inimmaginabili ai tempi di Kafka. Nel libro di Magarian questo salto di qualità è già implicito. Pianificazione burocratica e colonizzazione dell’immaginario, ovvero gli ingredienti principali della nostra realtà, vanno meravigliosamente a braccetto:

“Quando Donald Inn se ne era venuto fuori con l’idea di creare il mito di un messia contemporaneo, di un saggio, di un guru, Rees aveva trovato la cosa elettrizzante. Per una volta, non aveva in testa una strategia già interamente stabilita. Questa era una sfida vera… uno poteva prendere qualsiasi imbecille senza cervello e trasformarlo in una celebrità, ma prendere un signor nessuno e trasformarlo in un profeta richiedeva livelli eccezionali di capacità propagandistiche, astuzia, inventiva. Ci voleva un contaballe mira-coloso e solo lui era all’altezza del compito. Se Ryan Rees fosse riuscito a creare un altro Gesù Cristo, a tirarlo fuori dal niente, allora Ryan Rees avrebbe potuto fare tutto, letteralmente: Ryan Rees avrebbe potuto maneggiare, con la grazia di un prestigiatore, le imprese più elevate.”

Anche il novello Gesù Cristo deve sottostare alle regole pervasive della pianificazione. Tutto diviene lancio pubblicitario e distrazione di massa. Distrazione perché l’individuo contemporaneo si lascia volentieri distrarre dal numero crescente “contaballe” capaci di ipnotizzare come tanto incantatori di serpenti, e sembra non voler vedere che dietro ogni “star” c’è sempre e comunque un Ryan Rees. O forse è piuttosto vero il contrario? Non è forse l’assoluta certezza che dietro ogni fenomeno, anche quello più bizzarro, ci sia un Ryan Rees a rendere il fenomeno riconoscibile ed accettabile? Non è forse quella previa e necessaria pianificazione a rendere il “fenomeno” uno spettacolo consumabile?

Baret Magarian non risponde direttamente a queste domande e questo non era il compito del romanzo, ma fa molto di più, perché ci obbliga a non eluderle. L’ipocrisia che nella realtà ci consente di pensare che i meriti individuali siano le sole cause del successo di un attore, un cantante o una influencer ecc ecc, viene da Magarian neutralizzata d’entrata. Non vi è nessun  margine per illudersi che il protagonista Oscar Babel sia per suo solo merito il profeta dei tempi moderni. Al contrario, il suo solo merito, se così si può dire, è solo quello di essere al posto giusto nel momento giusto.

Chi è dunque Oscar Babel? Magarian ce ne dà un’immagine emblematica costruendo abilmente la sua pagina internet;

“Oscar Babel è un libero pensatore e un pioniere che può diventare la voce più influente del momento. Ha soltanto ventisei anni. È alto più di un metro e ottanta. Ed è la brillantezza fatta persona. Non ha preconcetti né limitazioni. Ha la mente aperta. È libero, mentre tutti gli altri intorno a lui sono incatenati dall’avidità, dall’ipocrisia, dal denaro e dall’infelicità. Anche tu puoi essere libero. Diventa il sogno!”

Magarian ci descrive la capacità totalitaria del sistema capitalista con una lucidità quasi disarmante. La libertà viene descritta come qualcosa di desiderabile, in un mondo dove a farla da padrone sono “avidità, ipocrisia, denaro e infelicità” e diviene un prodotto da scegliere e selezionare nell’ideale supermercato dei sentimenti. Rara sì la felicità. ma producibile con le stesse regole che producono i mali del mondo. E se è vero che tutti non possono essere allo stesso tempo felici, proprio perché a prevalere sono le “catene”, ma tutti possono esserlo almeno per un po’. Esattamente come i talent show costruiscono scientificamente, ovvero facendone spettacolo, l’illusione che tutti possano diventare delle star.

Anche la critica al sistema può diventare suo puntello, un prodotto da consumare come tanti altri. Magarian fa dire al suo protagonista:

«La società pretende che gli individui rinuncino alla loro ricchezza, al loro colore, appena si devono guadagnare da vivere. Ciò che è cominciato come una serie infinita di possibilità viene ridotto alla prevedibilità. Da ragazzi, siamo liberi di esprimere le nostre eccentricità e i nostri sogni. Crescendo, siamo invece costretti in sentieri e percorsi più angusti. Il nostro comportamento viene giudicato in termini di coerenza, di conformismo, di successo materiale. Questi sono certamente criteri validi, ma rappresentano soltanto una certa categoria di criteri. I più fortunati trovano uno spazio che garantisce loro la libertà di cui gli altri godono soltanto nei momenti privati – lontano dalla noia della fabbrica, dalla sterilità dell’ufficio. Gli altri entrano in una doppia vita, si mettono maschere davanti ai datori di lavoro e se le tolgono di notte. A volte la recita della commedia si svolge in armonia, ma spesso lo sforzo è troppo grande»

Ma la vera sostanza della logica del sistema Magarian la fa dire al giornalista del Times Quentin Verrico-Smith:

“Ammetto che queste osservazioni non sono poi così originali, ma non è questo il punto. Il punto è che si impongono all’ascolto, espresse come sono in un contesto originale. Sono un cinico, ma mi spingo ad affermare che quando il signor Babel farà la sua prima apparizione pubblica ci sarà grande richiesta di posti.”

Come dice il giornalista infatti, “non è questo il punto”. Non importa che le parole del profeta siano o meno originali, quel che conta è lo spettacolo i cui produttori hanno deciso che questa volta lo siano.

Esattamente come nel mondo kafkiano, nessuno può sottrarsi alle regole di ingaggio del sistema, sia esso prevalentemente burocratico-normativo , o pubblicitario-normativo, come nel caso del mondo descritto da Magarian.

E non sorprende affatto che entrambi arrivino ad una medesima conclusione: l’individualità non si afferma attivamente, come vorrebbe il credo moderno, ma è prodotta socialmente e prevalentemente secondo logiche burocratiche di produzione. Credere che nel dire “io sono” vi sia davvero la chiave per un’affermazione “positiva” dell’individualità, è per i due autori una mera illusione. Ma un’illusione necessaria per accettare davvero quelle logiche che altrimenti sarebbero difficilmente accettabili dall’individuo. Voler abbandonare l’illusione in nome di una vera autonomia dell’individuo è dunque una via quasi impercorribile, ed è perniata da un punto di partenza negativo, ovvero di resistenza alle logiche pervasive di assoggettamento.

In Kafka, questa affermazione in “negativo” dell’individualità, diviene straniamento, incomprensione delle logiche di assoggettamento, disarmante ingenuità. Il protagonista del Il Processo Joseph K. non riesce a capire quale sia la colpa che lo porta ad essere processo, mentre K., protagonista, de Il Castello, non capisce le logiche dell’organizzazione del Castello dalle quali è respinto ma da cui non sa staccarsi. Eppure in questo “straniamento” c’è la resistenza, l’impossibilità dell’autore di assoggettarsi completamente al sistema di controllo burocratico. E siccome assoggettarsi è la norma, sottrarsi all’assoggettamento è visto con sospetto dagli assoggettati, che non capiscono come il renitente possa rifiutarsi fino al punto di sembrare folle. “Ci sei o ci fai”, sembra questo alla base degli altri personaggi che gravitano intorno ai protagonisti delle opere kafkiane.

In Magarian invece, la resistenza all’opera di assoggettamento avviene attraverso la fuga del protagonista sul punto più bello dello spettacolo, quando chiunque altro avrebbe continuato a cavalcare il “sogno di gloria”. Invece Oscar Babel fugge quando capisce di essere solo un “pupazzo” costruito da altri. Dice ad infatti Oscar Babel:

«Non ho una vera identità. Sono una serie di identità mobili, ed è per questo che sono adattissimo alla celebrità: perché sono vuoto e tutti possono riempirmi a loro piacere con qualsiasi assurdità».

Era la premessa per una presa di coscienza disarmante riguardo non alla sua recita come profeta, ma ben più radicale, riguardante la struttura della sua identità sociale. “Io mollo. Mi fermo. Ne ho abbastanza”. Parole senza appello, definitive, che non gli lasciano più margine per un ulteriore compromesso.

Per questo alla fine decide di fuggire da regole che erano in fondo chiare fin da principio, da un ruolo che sapeva fin da principio essere la sua carta per il successo. Non a caso la reazione di Ryan Rees è violenta:

“Di colpo, con una violenza straordinaria, Rees si lanciò in avanti e spense il sigaro sul palmo della mano di Oscar. Oscar mandò un lamento di dolore mentre Rees gli urlava: «Brutto stronzo! Se molli adesso ti rovino. Faccio in modo che non ti dia-no un lavoro nemmeno come lavacessi. Patetico pezzetto di merda! È questa la ricompensa per averti tirato fuori dal nulla? Ci ho speso migliaia di sterline, in questa cosa, e voglio recuperare le perdite. E non solo! Ci voglio tirare fuori dei soldi, da te, e voglio continuare così. Sì, Oscar, ieri si è visto che sei una miniera d’oro, ma non posso stare a perdere tempo con le tue eccentricità. Non mi sono certo fatto il culo a inventare scemenze, raccontare balle, lisciare direttori e giornalisti per vederti fare un inchino e salutare. Non ti ho piazzato in una suite di lusso, non ti ho fatto assaggiare il successo per vederti mollare. Oh, mi rendo conto: non è etico, Oscar. Ecco cosa ti tormenta. Guardati intorno, faccia di merda: non c’è più etica né verità. Cresci un po’. Non c’è più realtà. La realtà è quella che scegli di costruirti, quella che scegli di fabbricare, o quello che io, Ryan Rees, scelgo di fabbricare, per es-sere esatti. Facci l’abitudine. È troppo tardi per piangerci sopra. Dovevi dire qualcosa quando era il momento. Pensavi che facessi tutto per bontà d’animo? Pensavi che facessi il filantropo? Pensa-vi che fossi una specie di cretino?»”

Ma Rees non contento del rimbrotto appena fatto all’ingenua resistenza di Oscar Babel e rincara la dose del suo rimprovero, come se a farlo non fosse lui ma tutta la massa degli assoggettati

«Oscar, povero piccolo verme, pensavi di poter dire qualcosa di rilevante, pensavi di poter risvegliare la gente. Be’, ho una notizia per te, Oscar: la gente non si vuole svegliare, la gente sta benissimo addormentata, sta benissimo imbucata nelle cripte gelate della tecnologia. Fa’ il favore: non sospirare troppo forte, ti strillerebbero addosso come diecimila corvi. È troppo tardi, Oscar: come cazzo fai a non capirlo? Ecco come stanno le cose, ora, Oscar: ci sono tutti questi zombie che se ne vanno in giro, in massa, dappertutto, sintonizzati sulle loro vite senza un cazzo di sbocco, tutti in parata, tutti in mostra, nei secoli dei secoli, a beneficio di una fantomatica giuria che però non esiste. Ecco come andranno le cose, Oscar: tutti saranno prigionieri e guardiani di se stessi, precipiteranno in un pozzo di follia tecnologica e consumistica. Ci sarà solo il consumo, da qui in avanti. Il consumo sarà l’unica cosa ad avere senso. E tu certo non riuscirai a salvarli, Oscar».

Ma su un punto Rees si sbaglia, Oscar Babel fugge dal ruolo che aveva scelto di recitare non per salvare qualcuno, ma per salvare unicamente se stesso. Nella fuga Oscar Babel comincia davvero ad essere se stesso. La fuga è descritta dallo scrittore in modo giustamente rocambolesco, come le sono tutte le cose che provocano una frattura irreversibile nell’esistenza:

“Oscar si trovava ora a una decina di metri dall’entrata principale, e da lì vedeva l’inevitabile sciame di giornalisti che aspettava fuori dalle porte girevoli e, accanto ai gior-nalisti, i discepoli accampati che ancora speravano di fare colazione (o, a quel punto, di pranzare) con lui. Si nascose in una rientranza del muro. Poi, all’apparire improvviso di un taxi, riuscì a fare un cenno di richiamo giusto in tempo e, mentre si buttava nella macchina, urlò: «Da questa parte, signori!». Alcuni dei giornalisti più svegli si resero conto di quello che stava succedendo e si misero a correre dietro al taxi, senza però riuscire a raggiungere il livello di velocità sovrumana necessario a tenere il passo. Nel frattempo, i discepoli si raccontavano a vicenda storie di tavolette Ouija, cosa che impedì a tutti di notare la fuga del loro salvatore. A bordo del taxi, Oscar era in estasi, concentrato sul-l’idea di Najette a Egham.”

Diventuto se stesso con la fuga, Oscar Babel diviene “Oscar Babel” per se stesso, ma smette al contempo di essere “Oscar Babel” per gli altri. E’ un destino inevitabile, necessario per rendere efficace l’azione di resistenza all’assoggettamento de sistema burocratico e consumistico che lo aveva reso celebre.

L’affermazione dell’individuo come negativo, come resistenza estrema alle logiche sociali onnicomprensive, porta inevitabilmente ad una impasse nella narrazione di Kafka e Magarian. Sottrarsi dalle logiche sociali sembra essere per entrambi allo stesso tempo necessario per acquisire una coscienza individuale davvero consapevole, e impossibile, perché la sottrazione non può mai essere vissuta senza trauma. Questa necessaria e impossibile sottrazione, spalanca quindi, come per convesso, un’altra importante questione centrale in entrambi gli autori, anche se con accenti molto diversi, quello del rapporto con la trascendenza.

E non può che essere un rapporto complesso e ambiguo, proprio perché la realtà sociale è stata descritta come immanente ed onnicomprensiva. E se la coscienza vuole diventare veramente consapevole di sé e non può far altro che farlo negativamente, “fuggendo” le regole sociali, questo non finisce per trovare nella trascendenza una possibile via d’uscita? Si tratta di una trascendenza che non fonda più il mondo, che non legittima più le regole sociali, come era accaduto un tempo, ma che invece serve a fuggire da un mondo e da una società che vengono percepite come immanenti ed ostili ad ogni forma di trascendenza.

In Kafka il rapporto con la trascendenza, nel solco della tradizione ebraica sia talmudica che cabbalistica, è data dalla scrittura. La scrittura è la possibilità di descrivere le cose per come sono, è un dono che consente all’essere umano di capire e di capirsi e per lo scrittore praghese diviene lo spazio eminente del suo rapporto con il trascendente.

Per Magarian invece, la realtà sociale contemporanea, con la relativizzazione di ogni valore operato dalla cultura postmoderna, ha tolto alla parola ogni rapporto “diretto” con il trascendente. La trascendenza diviene dunque un anelito trasfigurato, irreale, quasi inaspettato, che lo scrittore rappresenta magistralmente con un vero e proprio coup de théâtre , attraverso un’ascesa al cielo in mongolfiera, proposto dall’eccentrico ungherese Bela, nel quale Oscar Babel si libera del peso del mondo e sembra quasi rinascere. Il romanzo stesso si chiude con questa insolita e insospettata atmosfera, lasciando al silenzio il compito di descrivere il rapporto problematico dello scrittore con il trascendente:

“La tenda antisettica, un freddo paesaggio di plastica che lo separava dal mondo. Il reparto coi suoi meandri, l’odore di varechina, di disinfettante, l’ospedale con la sua vita sof-ferente. Piazzava una trappola, aveva escogitato per se stesso una trappola labirintica, si era iscritto a questo incubo perfetto, era affogato, era morto, era già un fantasma, un ricor-do. Chiese: era questo l’aldilà? Il ricordo? Erano i sogni, l’aldilà? O erano finestre che davano sull’aldilà? O erano soltanto l’immagine residua del giorno? Oppure era proprio questo l’aldilà – immagini residue della vita che ancora persistevano e il ricordo di quelli che mancavano che le riportava indietro, le rendeva reali, come nella mente terrestre, che poteva altresì essere un labirinto così che lui aveva bisogno di uscire dalle proprie macchinazioni, quel serraglio, quella trappola che aveva escogitato? Cosa diavolo aveva pensato di fare? Aveva bisogno, ora, di voltarsi verso la luce, finalmente.”

La trascendenza si affaccia come una finestra spalancata improvvisa nell’atmosfera soffusa di un’ascesa in mongolfiera irreale, nel quale le parole sembrano incapaci di descrivere il nascente anelito divenuto improvvisamente impellente. Magarian descrive perfettamente questa incapacità della lingua di testimoniare il rapporto con il trascendente:

“Questo tremore dentro di lui. Si sforzava di trovargli un nome. L’aveva dimenticato perché era assente da tanto tempo: un vecchio amico che si era trasferito, come osa? E lui non lo aveva più in rubrica, ma ora aveva sentito che l’amico era tornato, così… questo tremore.”

Il limite della parola come specchio del trascendente, è il rovescio della medaglia di una lingua divenuta specchio fedele di un’ambiguo rapporto tra individualità, che il sistema mette “ufficialmente” come pernio, ed una realtà burocratico-normativa che invece lo riduce a mera funzione numerica. In questa ambiguità si gioca il destino del sistema basato sulla produzione-consumo, incentrandosi proprio sull’impossibilità di distinguere la linea di demarcazione, ovvero la differenza per dirla alla Derrida, tra io sociale e io individuale, tra produzione e consumo, tra burocrazia e società dello spettacolo.

Basterebbero queste poche osservazioni per capire l’importanza del romanzo di Baret Magarian. Un libro che ha saputo, come pochi, guardare in faccia la realtà sociale che ci circonda e ne ha saputo mettere in luce le sue più inquietanti e permanenti aporie.

 

Marco Incardona

 

 

Una poesia di Bertold Brecht

4F5C0691-0E41-4103-B0BC-5D3E86B50BE1A seguito della mia poesia “A chi fa comodo l’oblio”, pubblico una

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha ancora ricevuta.

Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai piú potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’angoscia?

È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che fo m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri, sono perduto).

«Mangia e bevi, –mi dicono: –E sii contento di averne».
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.

Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!

II.

Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai insieme a loro.
Cosí il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Cosí il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano piú sicuri senza di me; o lo speravo.
Cosí il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Cosí il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

III.

Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.

Andammo noi, piú spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.

Bertolt Brecht

poesia di Bertold Brecht nella splendida poesia

 

 

 

 

 

 

A chi fa comodo l’oblio

Il 19 agosto di quest’anno, ma la data è irrilevante perché sarebbe potuto accadere ogni giorno da quando l’Italia esiste, durante la trasmissione Rai “Quante storie”, il giornalista televisivo e non solo Corrado Augias (di cui molti ricordano i libri e molti altri ricordano il modo in cui trattò a suo tempo Giovanni Falcone) in presenza dello storico onnipresente Alessandro Barbero (di cui molti ricordano le posizioni sul carcere di Fenestrelle e è più in generale sulle vicende che portarono all’Unificazione d’Italia), ha dichiarato pubblicamente, citando il filosofo francese Renan, che sull’annosa faccenda della “Questione Meridionale” andrebbe steso un velo definitivo di oblio. Di quale questione stava parlando? Certamente non quella dello squilibrio strutturale e storico delle regioni settentrionali su quelle meridionali. Quel che interessava ed interessa il giornalista è di imporre l’oblio su coloro che vorrebbero mettere in “questione”, non solo l’interpretazione delle cause all’origine  dell’annosa “Questione Meridionale”, quanto la storia stessa dell’Italia e della genesi della sua “Unificazione”. Augias propone l’oblio a chi vorrebbe capire, accettando la vulgata di chi dice che gli squilibri fossero preesistenti, il perché questi equilibri si siano ampliati e non ridotti durante la vita in comune dei “fratelli italiani”. “Fratelli italiani”, che non sapevano di essere fratelli, ma nemmeno italiani, se ha senso la frase, comunemente associata a Massimo D’Azeglio, “fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Ma non è questo il punto, se i vinti, o meglio quelli che Augias vorrebbe dire non esserlo mai stati, fossero oggi più ricchi dei presunti “vincitori”, forse la tesi seconda cui quella del Sud fu una conquista ad opera dei “Piemontesi”, sarebbe quasi “irrilevante”. Se gli squilibri fossero gli stessi, ammesso che prima dell’unità ve ne fossero nella misura della “storia ufficiale”, si potrebbe dedurre che l’Italia non è riuscita a colmare il gap tra le “due Italie”.

Invece i vinti, quelli che per Augias non sono mai stati vinti, sono oggi (nei termini relativi del differente sviluppo tecnico ed economico dell’Europa e dell’Italia) più poveri di prima dell’inizio della storia “unificata”. Se ne può almeno dedurre che il patto per i fratelli “meridionali” non sia convenuto così tanto? Se ne può almeno dedurre che forse la lettura storica dell’unificazione come conquista sia più “logica” e “razionale” della storia dell’affratellamento voluto dal “destino” e propagato dalla retorica risorgimentale?

Augias propone l’oblio a chi vuole leggere diversamente la storia patria, e questo significa che una storia patria esiste già (e che non deve essere messa in discussione), e in essa coloro che hanno lottato contro il nuovo stato “piemontese” sono chiamati “briganti”, nemmeno terroristi, quello lo si farebbe ora (erano poi troppi in numero!), e giammai patrioti. Patrioti non potevano essere, perché nessuno poteva opporsi all’ineluttabile destino dell’affratellamento e dunque erano da relegare al “rango”, si fa per dire, di comuni briganti. Ma visto che l’Italia prima non esisteva, bisognerebbe  capire perché di colpo, con l’unificazione, il brigantaggio sia divenuto endemico per alcuni anni in molte zone del fu Regno dei Borboni, per non dire decenni. Se esso esisteva precedentemente, durante il Regno dei Borboni, perché l’Italia dei fratelli finalmente insieme ne ha ingigantito il fenomeno? e soprattutto perché ha combattuto quel fenomeno davvero come un “nemico mortale” e non come un fenomeno di sicurezza interna? Come mai non ha fatto lo stesso con la mafia ad esempio?

E come potrete notare, ho cercato di evitare di parlare di “fatti” storici, di entrare nella storia della “fede” nei fatti, ma solo di congetture dedotte dal presente dell’Italia a partire dalla “retorica” della sua unificazione.

E purtroppo se ne deduce un solo e unico responso: i conti tornano a tutti tranne che ai “meridionali” (il sud dell’Italia).

Se questo fatto, che non è nel passato, come vorrebbe Augias, ma nel presente e se non viene fatto qualcosa, anche nel futuro del Meridione, e che non può essere messo in discussione,è da considerarsi indiscutibile, come si può chiedere ai meridionali di obliare, ovvero di non cercare “anche” nel passato le ragioni di questo squilibrio crescente?

E se i vinti non sono quelli del Regno Delle Due Sicilie, come è stato possibile che lo siano diventati il loro figli, i loro nipoti e via discorrendo?

E pur ammettendo che l’Italia non sia stata fatta vincendo e conquistando i meridionali, non se ne deve dedurre che poi ne ha fatto comunque dei vinti?

No, caro Augias, in certi casi, forse in tutti i casi, l’elogio dell’oblio conviene solo ha chi ha già tutte le convenienze, a chi si vuole togliere anche la memoria come strumento per reagire, per comprendere e combattere il proprio stato di sudditanza perpetrato con metodica accuratezza da chi ha vinto.

No, caro Augias, i meridionali non devono affatto imparare a obliare, ma devono finalmente ritornare a ricordare!

A seguire una poesia che ho scritto traendo ispirazione da questo ennesimo episodio di incapacità del “nostro” Paese di fare davvero i conti con la propria storia.

carmine crocco

A chi fa comodo l’oblio

Non conoscono elogi i poeti

per questo non accettano l’oblio.

Il silenzio è la droga di chi ha vinto,

di chi crede che la realtà da accettare

sia sempre e comunque

quella voluta per sé.

Far tacere l’eco della violenza sui vinti,

è l’ultimo stadio della conquista totale.

Nemmeno piangere, nemmeno invocare

le voci perse nel risucchio del tempo.

Non conoscono elogi i poeti,

il dolore hanno appreso a guardarlo negli occhi,

vederlo avanzare tra luoghi comuni,

nelle parole dei figli dei vinti che non si credono più vinti.

Come se sedere alla stessa tavola

significasse davvero essere uguali.

Come se dirsi fratelli

bastasse davvero per essere fratelli.

Non conoscono elogi i poeti,

non accettano il potere di chi crede

che i suoi conti debbano tornare per forza.

Invece i conti non tornano affatto,

Mentre la terra dei vinti trasuda il suo dolore,

e i suoi figli non cercano dove dovrebbero.

Non conoscono elogi i poeti,

non diranno bravo ai figli dei vinti in fuga,

non venderanno loro finti paradisi di egoismo.

Perché non vi sarà mai vera pace,

finché la voce dei vinti non parlerà libera,

nei cuori dei suoi figli dispersi.

Non conoscono elogi i poeti,

non spacciano le briciole per risarcimento,

non vendono l’orrore per legge della storia,

non spalancano le braccia a coloro,

che ai figli dei vinti affidano

il farmaco elettrizzante chiamato oblio.

Perché il rispetto della memoria offesa,

significa guardare il mondo con gli occhi dei vinti,

e mai cedere ai suadenti desideri di chi ha vinto.

Marco Incardona

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GLI INASPETTATI NEMICI DEL PENSIERO (Seconda Parte)

Nel precedente articolo si era sostenuto che, nel’evento poetico inteso come prodotto culturale, la possibilità del poeta di dire”altro” rispetto all’evento stesso, sia ormai ridotto ad uno screzio quasi impercettibile. Nella retorica del successo (in quanto giù successo) dire ed ascoltare stringono un patto assoluto, quasi inscindibile, che non consente imprevisti e sbavature di sorta. Banalmente: si può ascoltare solo quello che può essere ascoltato in quanto già detto o dicibile. o in quanto inserito nell’orizzonte vigile dell’aspettativa. Si ascolta davvero quello che è già inserito nell’orizzonte strettamente sorvegliato delle nostre aspettative. Altrimenti le parole resterebbero “insignificanti”.

speranza

Ancora più banalmente: caro il mio poetunculus, se non ti capisco il problema è tuo, perché si sa, il pubblico è come il cliente, ha sempre ragione. Se il poeta intende avere un pubblico, deve dire quel che al pubblico è gradito, non nel senso del gradimento, ma dell’orizzonte stesso di comprensibilità. Nella civiltà dell’happaning l’orizzonte di comprensibilità, quello in cui il poeta gioca la partita del sui dire e dell’ascoltare del “suo” pubblico, non si gioca nella parola ma nell’evento nel suo insieme. La parola è un decoro estetico, non è il fulcro del significato del dire poetico.

Ed è qui che si gioca la partita,

Avete mai visto un selfie?

Chiunque non è in grado di essere naturale, come se fare un selfie fosse normale, apparirà sempre falso, quindi insignificante. Questo è lo stesso per l’evento poetico, il poeta deve essere tutto nella natura stessa del dire per l’evento, altrimenti letteralmente non significa niente.

Ma precisato questo, rimane aperta una questione, può il poeta, o se vogliamo, può la poesia esprimere “questo” altro e “questo” oltre che nell’evento culturale sarebbe invece reso inesprimibile?

Possiamo dire che Parmernide scrivendo poesie fosse un pazzo, che Leopardi uno sfigato e Nietzsche un megalomane. Possiamo dire che T. W. Adorno e Martin Heidegger fossero dei filosofi eretici nel vedere nella poesia proprio quel dire oltre e quel dire altro.

Ma  quello di cui scrivevano o parlavano come “poesia” ha qualcosa a che vedere con quello a cui assistiamo negli eventi poetici odierni?

Prendiamo i seguenti versi del poeta francese René Char:

Quando scricchiolò lo sbarramento dell’uomo, aspirato

dalla faglia gigante dell’abbandono del divino, delle parole

in lontananza, delle parole che non volevano

perdersi, tentarono di resistere alla spinta esorbitante,

allora si decise la dinastia del loro senso.”

 

La domanda dunque è questa: può la potenza, non già il senso, di questi versi dispiegarsi in alcun modo durante un evento poetico? Esiste la possibilità che queste parole possano sprigionare tutta la loro forza espressiva?

Questo vuol dire ancor più radicalmente: l’evento poetico odierno viene prima o dopo lo scricchiolare dello sbarramento umano di cui parla la poesia? E dunque “le parole che non volevano perdersi” hanno qualcosa a che vedere con le parole proferite durante un reading? e ancora, cosa sarebbe esattamente questa spinta esorbitante a cui queste parole (poetiche?) cercherebbero di “resistere”?

Se quanto detto nel primo articolo è stato minimamente compreso, appare ora evidente che l’evento poetico, come prodotto culturale, appartiene al mondo del produrre/consumare, basato sulla tecnica come volontà di potenza illimitato e nichilista, ovvero proprio a quella “spinta esorbitante” che la poesia di Char voleva descrivere.

Ne consegue a mio avviso, che l’oltre e l’altro della poesia di Char non possono in nessun modo essere comunicate in un reading poetico odierno.

Pensateci: se si volesse “svelare” (nel senso del greco aletheia) il “senso” dirimente delle parole del poeta francese, si dovrebbe ricorrere a quei concetti: “civiltà della tecnica”, “nichilismo”, “alienazione”, “deiezione”, “angoscia amministrata”, “rimozione di senso”, “anabasi concettuale”, “svalutazione del divino” ecc ecc, che fanno accapponare la pelle del pubblico di un qualsiasi evento.

Eppure se si dovesse essere sinceri, quando ai poeti capita di parlare, nella pochezza concettuale delle loro parole, si legge l’eco spento del senso di queste parole bandite in quanto filosofiche. Critiche un tanto al chilo, quello sì, della società dello spettacolo, dove nessuno più legge ecc ecc. il mondo disumano e bla bla bla, il rifiuto dell’altro, disumanizzazione, come se fossimo al cathechismo… Poeti catechisti? ci mancava solo questo…

E dunque che? Semplicemente che il successo di un poeta è cosa risibile rispetto al successo di una Elettra Lamborghini o di un Marco Mengoni e questo genera rabbia, forse anche giusta. Da lì il livore del poeta verso un mondo del consumo che, anche quando consuma ed apprezza, alla fine dà solo le briciole…

Quanto affanno per delle briciole, eppure altrimenti vi sarebbe il niente.

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E poi? e poi non se ne esce!

Quando il poeta parla la lingua del quotidiano ed esprime il suo giusto livore verso un mondo che annichilisce la poesia, genera quella nuvola nera che nella magia dell’evento viene a sua volta annichilita. Del resto ci si veste a morte, come tanti zombie, per Halloween ma siamo pur sempre a far festa!

E poi non si deve confondere i piani.

Si diceva nell’evento il dire e l’ascoltare devono coincidere un una perfetta circolarità. Chi dunque può dire che il pubblico non gradisca le “critiche” ritrite al sistema dello spettacolo che svuota la cultura? Non è forse questo che aspetta che il poeta dica quando i versi smettono di cantare? Gli ascoltatori non vogliono dunque distinguersi, proprio nel senso di Balzac, dagli spettatori di un concerto di Mengoni? il poeta ce l’ha con il successo di Mengoni e lo spettatore ce l’ha con lo spettatore che sancisce il successo di Mengoni. Parlarsi addosso appunto, o no?

E poi? e poi non se esce!

Ecco infine arrivare la domanda canonica dal pubblico, come un sigillo necessario e scontato: “secondo lei (o sommo poeta vate del water) esiste una speranza in un mondo come questo?”. Domanda che va letteralmente tradotta: “ehi tu poeta dammi una speranza!”

Come se la speranza fosse un prodotto che si fabbrica e che si lancia sul pubblico come i palloncini di una festa al Papeete. Come se la speranza si prendesse da uno scaffale di un supermercato e siccome non la si trova, si finisce per pensare che sia un po’ come la metanfetamina commerciata solo al mercato nero. Il poeta di belle speranze ridotto a pusher di speranze al mercato nero dell’evento elitario.

Giustamente nell’ottica del dire che coincide con l’ascoltare, inserita del produrre per il consumare, anche la speranza diviene un prodotto da produrre e da commerciare a suon di versi dal poeta garante dell’immaginario dopato e drogato fino alle budella.

A nessuno verrebbe da dire, ad esempio, che forse, anche solo per mera ipotesi,  la speranza non sia un pensiero che si “dà” nell’ascoltare come se fosse un virus, ma che forse la speranza possa nascere come “pensiero” solo se si è capaci di pensare. Come dire, ad esempio. che nel pensare vi sia già la speranza, che la speranza sia già un saper pensare.

Ma nel magico mondo dello spettacolo poetico, pensare non fa rima con parlarsi addosso.

TO BE CONTINUED

Marco Incardona

 

GLI INASPETTATI NEMICI DEL PENSIERO (Prima Parte)

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Tra i fenomeni sociali che non sono ancora spariti dall’orizzonte del visibile, pare vi sia quello degli “eventi” poetici. Esistono ancora i poeti? la domanda non vorrebbe essere retorica anche se finisce per sembrarlo. Anche perché il fenomeno poetico, se lo si volesse giudicare dal numero di eventi, happening, performance, slam e via discorrendo, sembrerebbe essere in forte espansione.

Ma del resto nella società del consumo, quel che conta è consumare ed essere consumati, e niente e nessuno pone, e nemmeno si sognerebbe, di interdire alla poesia di divenire un prodotto culturale di largo consumo, se solo riesce ad esserlo. E non occorre scomodare Kant, per capire che perché un prodotto venga consumato, bisogna, prima, che venga riconosciuto e appreso come un oggetto “atto” ad essere consumato in quanto riconosciuto, ovvero che esistano le “possibilità” che rendano appunto possibile la sua “conoscibilità”. Per essere evento culturale, la poesia deve rendere possibile le condizioni della sua “vendbilità”, e se la parola urta l’udito di molti, “la fruibilità” di un pubblico pronto al consumo visivo-uditivo.

E’ dunque, o meglio sarebbe dunque da rintracciare il nesso che rende “possibile”, “riconoscibile”, e quindi “usufruibile” la poesia come “prodotto” dal consumatore culturale. A maggior ragione di largo consumo come vorrebbe essere, il prodotto culturale “performativo” prodotto dai poeti contemporanei.

Lo spettacolo ha le sue leggi, spesso mimetiche, e lo spettatore deve immedesimarsi nel protagonista della scena, esattamente come il protagonista deve sempre immedesimarsi nello spettatore. Una fin troppo scontata circolarità, quasi al punto di divenire una specie di tautologia spuria, che si basa in modo strettamente “retorico” sulla coincidenza sfalsata tra dire ed ascoltare. Si può ascoltare cioè, solo quello che si sarebbe disposti a dire se solo si potesse. Ma anche viceversa:  si può dire “veramente” in un evento solo ciò che gli altri sono disposti ad ascoltare.

Questo assottigliarsi del confine tra il dire a l’ascoltare dell’evento poetico come prodotto culturale, non è certo prodromico alla costituzione di una complessità di tipo comunicativo. Al contrario, nell’evento, ad assottigliarsi, anzi ad annullarsi, è proprio lo “scarto” tra il dire e l’ascoltare, tra il poter dire ed il voler ascoltare. Lo scarto rappresentato da quell’incognita che conduce il dire ad un dire oltre, ovvero ad un dire che obbliga l’ascoltatore ad obbligarsi ad un nuovo ascolto.

Uno scarto tra dover dire dell’evento e poter dire come “dire oltre”, che provoca uno screzio nello spettatore del prodotto che da ascoltatore del “già di per sé ascoltabile” in quanto prodotto, viene sollecitato ad in ascolto attivo, per certi versi creativo, dove lo “spazio”scenico del dire/ascoltare è già oltre la retorico del dire solo quello che si è disposti ad ascoltare.

Ma la produzione e quindi anche la produzione di prodotti culturali non può “costitutivamente” basarsi sullo scarto. Quest’ultimo viene al contrario ritenuto una iattura che mina la possibilità del prodotto di essere consumato.

Scarto e screzio non sono dunque parte “possibile” dell’evento poetico. Ne consegue che per funzionare, l’evento culturale poetico deve far coincidere il dire con l’ascoltare, ovvero deve dire tutto il suo dire nell’evento. Il dire poetico di un evento si esaurisce nel suo dire per l’evento.

Leggere una poesia in un evento culturale, significa dunque, anche quando si legge una poesia scritta e prodotta per essere pubblicata, ridurla al solo piano della sua “ascoltabilità” per l’evento, ovvero mutilarne a priori lo scarto inteso come dire oltre, che pure dovrebbe essere il senso della poesia, ma che nell’evento viene espunto in quanto letteralmente “insignificante”. La poesia fruita come evento culturale espunge da sé la sua dimensione di sfida alla retorica e ne diventa invece la più fedele ancella. Letteralmente il poeta si trasforma da contestatore indemoniato del discorso retorico, a suo propagatore di lusso, In nome del successo come evento, il poeta concede volentieri il sue dire alla retorica del già successo in quanto evento.

Se ne deduce quanto meno, che l’avanzata del poeta come protagonista del suo successo in quanto evento, ovvero in quanto “già successo” come ascolto possibile dello spettatore (si dice solo quello che si sa può essere ascoltato), si rende possibile come “riduzione” del campo del suo dire.

Non solo il dire di un evento poetico si esaurisce nell’evento stesso, cosa di per sé emblematica, ma per il successo dell’evento, il poeta è costretto a ridurre il potenziale del sui dire poetico al solo campo retorico dell’evento come “già successo” che rende possibile la “coincidenza” di dire e ascoltare.

Che nella poesia in quanto tale sia presente uno scarto, un dire come oltre del dire come evento, questo diviene di colpo inessenziale e quindi insignificante. Il poeta rinuncia volentieri a quel che potrebbe dire (se solo lo volesse davvero!), anzi a quello che la poesia può dire in quanto poesia, in nome del successo del suo evento.

L’insuccesso dell’evento non direbbe nulla nel dire oltre e altro della poesia, ma almeno aprirebbe uno squarcio, un ponte indesiderato che conduce lo spettatore a dovere ascoltare un dire poetico che normalmente, a regole d ingaggio dell’evento vigenti, non sarebbe disposto ad ascoltare. L’insuccesso di un evento poetico, non abolisce il senso dell’evento come produzione di una retorica tra dire e ascoltare, ma almeno richiama la sua insostenibilità, e lascia presagire la possibilità di un incontro tra dire ed ascoltare che vada oltre la retorica dell’evento.

Ma esattamente come lo scarto del dire poetico, anche l’apertura come insuccesso e disattesa del dover essere ascoltato, non è possibile per l’economa dell’evento. Chi ascolta deve pretendere la retorica dell’evento, esattamente come è vero il contrario.

Per essere brutali, quello che “accade” in un evento poetico è certamente infarcito di una retorica grandiloquente, fatta di grandi richiami, di dotte citazioni, di potenti evocazioni metaforiche, ma dal punto di vista formale non si distingue dal meccanismo messo in atto dagli influencer o dagli scherniti reality show. Il famoso “Io sono quel che tu sarai” che si legge nelle tombe è molto simile a quel che “potrebbe” dire il protagonista di un reality ad un qualunque spettatore. Quest’ultimo deve immedesimarsi nel protagonista fino ad essere già in scena come protagonista, esattamente come negli eventi poetici gli spettatori, coloro che dovrebbero ascoltare, sono invece coloro che già sono là per dire quello che il poeta sta dicendo.

Quando dire ed ascoltare si confondono, si sostengono circolarmente fino a coincidere, come spesso accade nell’evento, il dire poetico diviene, letteralmente, un parlarsi addosso. Si parla addosso il poeta che parla, ma si parlano addosso anche gli spettatori che, teoricamente, dovrebbero ascoltare.

pagliacciata

Se il dire poetico non ambisce a dire oltre e a dire altro rispetto all’evento e alla sua logica, non può nemmeno pretendere che l’ascolto possa mai essere ascolto di un dire inaspettato. La pubblicità serve a rendere logica e quindi meccanica, la dinamica del produrre e quella del consumare. Non può esistere uno scarto tra il produrre un oggetto in quantità industriale e il suo “dover essere” consumato come prodotto. La logica stessa della produzione necessita di questo “adeguamento”.

Questo vale anche per la cultura, anche per la poesia. L’evento poetico, esattamente come la pubblicità, consente il progressivo adeguamento del dire poetico e dell’ascoltare poetico e ne elimina lo scarto in quanto contrario alla logica dell’evento.

Evento culturale, reality show, happening, pubblicità, influencer partecipano tutti come “necessaria mediazione” di un sistema basato sulla produzione, sulla tecnica e sulla tecnologia.

Più a monte si potrebbe dire, in termini meramente heideggeriani,  che nella società della tecnica l’evento culturale ( o pubblicità, o happening ecc ecc ) ha la medesima funzione dell’idea platonica, della categoria aristotelica o kantiana nel rendere possibile la comprensione dell’ente all’uomo. Non a caso per Heidegger la storia dell’Occidente come una traiettoria che dall’idea platonica, finiva per essere il nichilismo inteso come volontà di potenza e come tecnica.

Esiste dunque una correlazione profonda tra idea, categoria ecc, che sono lasciti del pensiero filosofico e l’evento cultural-poetico, anche se molti poeti non solo faticano, ma non sono disposti ad ammetterlo. Forse perché dovrebbero ammettere di aver rinunciato proprio a quello scarto che, per il filosofo tedesco, solo la poesia poteva realizzare contro il disegno di dominio sull’ente inaugurato dal pensiero metafisico.

In quanto non metafisica nel suo stesso modo di pensare, la poesia rappresentava, nei suoi auspici, il solo modo per far baluginare il senso profondo dell’essere e depotenziare la stringenza del progetto metafisico.

Ma negli eventi poetici, strano paradosso, dove il pensiero filosofico viene avversato come qualcosa di radicalmente estraneo al senso della poesia, si realizza invece, e proprio per questo, lo stesso progetto di “entificazione” del mondo e di suo dominio attraverso la tecnica, che per filosofi come Heidegger e Severino, altro paradosso, coincide con il senso stesso del pensiero metafisico. Ancor più paradossalmente, la poesia ridotta nella retorica stringente dell’economia degli eventi, elimina la possibilità di rappresentare la possibilità di andare oltre l’orizzonte nichilista del pensiero metafisico.

Questo tradotto in parole significa, nella logica stringente della retorica dell’evento poetico contemporaneo, che per inchinarsi alla civiltà del successo, che in ultima istanza lo fa scimmiottare il mondo pubblicitario, il poeta nel parlarsi addosso del suo happening deve imprecare energicamente contro i filosofi, proprio quando ne realizza, con il suo piegarsi alla logica dell’evento, il progetto metafisico. Al contempo, il poeta contemporaneo è sempre pronto a voltare le spalle alla poesia quando essa percorre dei sentieri che, a detta degli odiati filosofi, rappresentano una possibile effrazione del mondo nichilista inaugurato dal pensiero metafisico.

Sempre pronto ad inchinarsi alla logica della civiltà della tecnica, il poeta è disposto volentieri in nome della poesia a scagliarsi contro i filosofi, anche quando questo significa andare contro il pensiero, anche quando questo significa andare contro la poesia stessa.

TO BE CONTINUED

Marco Incardona

Giuseppe Conte il Mago Zurlì per gli italiani che esportano 16 miliardi di capitali al giorno

Il tempo della retorica infima (non a caso ripetuta a pappagallo da tutte le pubblicità televisive) e del “andrà tutto bene” è finito da un pezzo. Personalmente non lo rimpiango come tutte le retoriche e le propagande di ogni tempo.

E in effetti gli italioidi sono tornati di gran corsa al loro sport preferito, quello della critica sistematica, del piangi e fotti e del Governo che è causa di ogni male.

E dunque? E dunque in questo Belpaese del quando si guadagna e si fa profitto tutto è privato e quando si perde tutto è pubblico e cose vanno così non da oggi. Perché si sa questo è il paese amorevole dove il privato è privato e il pubblico è privato.

Ma si sa nel paese con la più alta percentuale di evasione d’Europa gli italiani pagano le tasse e quindi pretendono che lo Stato paghi, paghi, paghi e paghi ancora.

Nel mondo privato ( quello di ognuno di voi per intenderci) funziona che se guadagni 1200 e ne spendi 1400, sei in debito con qualcuno di 200 euro, ma nel pubblico, per gli italioidi, funziona che se lo stato chiede 1000 di tasse e ne spende 1300 di vari servizi è ladro. Non funziona mai che quei 300 di debito siano andati nelle tasche di qualche privato.

Verrebbe da dire ma ladro chi? sarebbe dunque un Moloch questo stato che ruba? o non si tratta invece di persone elette, di persone messe negli uffici amministrativi e di imprenditori che vivono della corruzione del pubblico?

In parole povere l’indebitamento del pubblico, non coincide con l’arricchimento di un qualche privato?

Vero italioidi?

Quando votate, ratificate il sistema del bengodi pubblico e dello sversamento illecito nel privato e poi quando succede il dramma pretendete di fare del Pubblico una specie di SuperEroe che elargisce soldi a profusione come se fosse una specie di Leviatano Onnipotente.

Cacciare i soldi mai, perché si sa quelli sono vostri e siete pronti a difenderli votando anche Hitler se fosse il caso!

Dicono tutti che siamo in un periodo eccezionale per il nostro Paese. Eppure nessuno chiede a chi si è “FATTO” l’Italia di dare un po’ di quello che ha “rapinato”, nessuno si indigna che 16 miliardi di capitali se ne vadano all’estero.

E io ve la metto così (aggiungendo che io sto messo esattamente come gli altri e attendo una cassa integrazione che chissà se arriverà, così non venga in mente che mi trovi in chissà quale empireo cielo!), se voi aveste un problema chiedereste i soldi che vi sono necessari a chi è indebitato fino al collo, oppure li chiedereste piuttosto a chi se la passa bene?

Il problema italiano è che il pubblico è indebitato fino al collo e che i privati non ci pensano nemmeno per sogno di aiutare il paese in un momento difficile! al contrario i soldi se li tengono ancora più stretti!

Chi dovrebbe è stato messo in condizione di non potere e chi potrebbe si è  auto assolto dal compito di dovere alcunché a chicchessia. Tutti onesti, tutti lavoratori, tutti geni, tutti grandi imprenditori e tutti a chiedere soldi allo Stato che è sull’orlo della bancarotta, assaltato da privati avidi di arricchimento a cui nessuno chiede mai niente quando le cose vanno male.

Ma davvero questo popolo merita di essere lodato?

Perché io dico, almeno bisognerebbe avere la decenza di chiedere poco o nulla a un pubblico che si è ripetutamente svaligiato, deufradato, indebitato con mille comportamenti fraudolenti.

O almeno bisognerebbe dire, ammettere, piangere, rammaricarsi di giungere in situazioni cruciali per il Paese, trovandosi in condizione di non potersi fare aiutare da chi dovrebbe farlo e non essere mai in grado di far pagare a chi più ha preso…

Che brutto colpo per l’Italia questo Virus dopo anni di tagli al pubblico e centinaia di migliaia di giovani emigrati in cerca di fortuna all’estero!

Ci vogliono tanti, tanti soldi e purtroppo lo stato italiano non li ha e per averli deve aspettare che il pachiderma europeo si metta in moto.

Intanto quelli che hanno preso, esportano all’estero quello che hanno preso e nessuno che pensi che questo abbia a che fare con la situazione odierna.

Del resto piangi e fotti è una religione per l’italioide.

 

I nostri governanti si vantano in Europa che il risparmio privato italioide sia molto alto, altissimo, un vanto unico. Ed è vero, ma che se ne fanno quando c’è bisogno veramente di soldi?

Niente. E non c’è bisogno di Keynes per capire che non solo questo risparmio non serve niente in caso di crisi, ma anzi genera solo comportamenti prociclici e una restrizione dei consumi privati, ovvero degli unici che in Italia potrebbero spendere. Ma niente sarebbe già molto, invece questi poi i soldi se li portano pure via, quindi non solo non aiutano, ma danneggiano.

Ma si badi bene, nel paese del piangi e fotti, mai pretendere che chi non ha ed è stato depauperato dal possibile aiuto del pubblico in caso di difficoltà, chieda qualcosa a chi ha, a chi ha approfittato del sistema, a chi semplicemente ha.

Lo ripeto non è vero che il debito pubblico sia una specie di incognita misteriosa. Bene o male il debito pubblico coincide con l’arricchimento di un qualche privato e un non trasferimento in servizi utili alla collettività.

giuseppe conte

Ma questo non si può dire, invece cosa si può dire? si può dire che un povero disgraziato (fossi in lui mi dimetterei) a nome Giuseppe Conte, che prima si trova a governare con uno che si trova meglio con le cubiste che nei consigli dei Ministri e poi si trova a fare un governo raffazzonato in una crisi agostana, diventi d’improvviso il Deus Ex Machina di tutti i mali e risolva tutti i problemi!

Gli stessi giornalisti che prima accusavano i governi di spendere anche solo un euro senza dare conto allo spread, al debito, ora accusano il governo di spendere poco, male, con lentezza…

Da spendaccione ora sembra diventato una specie di spilorcio che non elargisce il tesoro di Aladino che il Virus sembra aver creato chissà come…

Ma il debito non era debito?

Hanno forse preso Giuseppe Conte per il mago Zurlì che crea denaro con la bacchetta magica?

mago zurlì

E purtroppo io la penso piuttosto come diceva l’Onorevole Andreotti, che “a pensar male si fa peccato…”, ovvero che coloro che hanno preso, hanno tutta l’intenzione di rimettere le mani sulla torta anche questa volta.

Ma “andrà tutto bene” se vi pare.

 

Marco Incardona