GALLERIA DI MOSTRI MODERNI: il prototipo del mostro fiorentino contemporaneo il defenestratore/capro espiatorio

La modernità, si sa, genera i suoi mostri. Di costoro, personaggi singolari e dotati di caratteristiche ineguagliabili e spesso irripetibili, hanno parlato scrittori e poeti, immortalandoli in pagine indimenticabili. Personaggi/caratteri unici, protagonisti e prototipi sociali al contempo, che hanno attratto e suscitato l’attenzione di scrittori quali Balzac e Maupassant per dirne solo alcuni. La cifra distintiva di tali mostri è la voglia assoluta di distinzione appunto. Famelica, irriverente, al limite tra il grottesco e il folle, tra lo sviluppo delle facoltà critiche e l’affiorare di patologie cliniche, per dirla alla Derrida.
La loro morale esiste solo quando qualcuno si permette di metterli a critica, per il resto tutto è loro permesso, Dio è morto e il resto è solo ciarpame.
Ma veniamo a noi: Anche Firenze, piccola cittadina che inventò la modernità ma che da qualche secolo sta rannicchiata sugli allori del suo fausto passato, ha sviluppato la sua “tarda” via alla modernità… di conseguenza anche a Firenze si aggirano mostri moderni unici e irripetibili.
Uno dei più rilevanti è sicuramente quello del defenestratore/capro espiatorio.
Questo tipo particolarissimo di mostro moderno passa il tempo ad accusare le persone, a punzecchiarle in articoli di invettiva, certamente arguta, ma crudele e spesso esagerata, ma se poi, qualcuno, preso dalla frecola della rabbia, si concede il lusso della reazione e della difesa, allora il defenestratore dalla penna facile, muta faccia come un camaleonte e si tramuta in capro espiatorio. Con la stessa facile penna istruisce processi immaginari e fantasiosi nei quali, di gran carriera e velocemente, dismette gli abiti del giudice, per indossare quelli dell’imputato, passando al novero e all’inquisizione spettatori, testimoni, presenti e assenti.
Defenestra e crea scandali, ma i defenestrati non hanno diritto di replica, perché basta una parola per tramutarsi in assassini in cerca “borghese” del povero defenestratore che ha la sola colpa della sua coerenza extra borghese.
Se non lo cerchi sei borghese, se lo cerchi sarai un giorno borghese anche tu, se lo critichi sei borghese, se non lo critichi sei borghese, se stai zitto sei borghese, se hai una lolita sei borghese, se non ce l’hai sei borghese. Sono tutti borghesi tranne lui.
Extra borghese e quindi extra morale. Defenestra collaboratori di un blog unicamente perché omosessuali, ma se qualcuno gli ricorda che trombarsi una donna amata alla follia da un amico, da lui definito “fraterno”, non è certo un gesto “fraterno” allora tutto si risolve nella facile formula “intra borghesiam nulla salus”. Ma lui non è borghese, è al di sopra del bene e del male, se una lolita si permette il lusso di amare un altro uomo, un Caiu silliù mettiamo caso, si tramuta in puttanella(e si badi nella sua mente questa mutazione di accenti non è affatto moralismo), se la puttanella si permette il lusso di farlo con altri oltre a lui, allora si tramuta in puttanella assoluta.
Perché tutti sappiamo come la pensa il nostro mostro moderno o sei con me o sei contro di me, o sei la “potrei anche innamorarmi di te” o diventi una puttanella, Nel frattempo la stessa persona definita puttanella era stata oggetto della scrittura di un libro e di tenere parole di affetto seriali vien da pensare. Perché le lolite, si sa, sono le sagome cangianti di uno spettacolo sempre lo stesso, che va in scena ogni volta in fogge differenti, ma la cui banalità di trama rimane immutata.Non sforziamoci di trovare un telos profondo in questa famelica ricerca di emozione sagomale da supermercato dei sentimenti. Oggi tocca a me, domani a te, prendi 3 e paghi due, saldo di fine stagione, sono formule più appropriate per definire queste lolitastre da strapazzo piuttosto che retoriche frasi prive di significato.
Una pubblicità di un qualche prodotto diceva “smettete di pensare e lasciatevi trasportare dall’emozione di guidare ecc ecc…”. Con il nostro mostro fiorentino vale qualcosa del genere. Se doveste incontrarlo e sentirlo irradiare discorsi sull’amore, smettete di giudicare/giudicarlo e fatevi giudicare. Tanto, si sa, la verità e la coerenza stanno sempre da una parte sola, la sua.

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Louis XIV Capellone-parruccone

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finestra della defenestrazione di Praga

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prototipo possibile di defenestratore fiorentino contomporaneo

Le ragioni dello scrivere

gesualdo

 

Nel 1985 all’interno di una raccolta di articole e prose brevi di vario genere aventi il titolo di “Cere perse” e pubblicato dallo Sellerio di Palermo, Gesualdo Bufalino, pubblicò un breve testo intitolato “le ragioni dello scrivere”, testo a tratti commovente e lancinante e certamente indicativo per capire la profondità di sguardo e di analisi del grande scrittore siciliano. Ne riporto una larga parte:

“Perché si scrive, mi chiedo. Perché ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si dà corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta, s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori così plausibile piove la luce della luna nell’erba, e i nostri moti naturali, le più immediate insurrezioni dei nostri sensi c’invitano al gioco affettuosamente, divinamente semplice della vita? La vita è innamoramento impulsivo di se stesso, credulo abbandono alle quattro dorate, virginee, felici stagioni. Scrivere, insinua la voce, non significa solo adulare i minuti con la cosmesi dell’immaginario, ma nutrirli dei nostri escreti mentali, addobbarli viziosamente delle nostre maschere nere. Rappresenta dunque in qualche modo una colpa: forse macchiarsi le mani d’inchiostro è come macchiarsele un poco di sangue, uno scrittore non è mai innocente. Non solo, ma nell’atto stesso in cui un autore si umilia alla superbia di dire io, come fa a non sentirsi inerme, spogliato, simile ad una recluta nel mattino della visita di leva? Non assume forse ogni sua
parola i colori lividi d’una delazione imperfetta? Non trasuda i sudori, le ciprie abiette d’uno spogliarello tentato e mancato? Starsene sul palcoscenico, nell’abbacinante fulmine dei riflettori, non diventa a lungo andare un’intollerabile gogna? Il silenzio, invece… la perfezione, l’asepsi, l’impunità del silenzio! Poter assistere alla vita dal proprio loggione piuttosto che recitarla; fra tanti che smaniano di arrivare, scegliere di non partire! E poi… dal momento che il pensiero, come le onde avanti a quel cimitero marino, ricomincia senza posa, perchè ostinarsi a volerlo pietrificare nei freddi piombi di Gutenberg? Veramente ogni libro stampato è una bara… Lusinghevole discorso, e converrà ribatterlo punto per punto, anche se metà di me gli dà oscuramente ragione…Afferma Montherlant che pubblicare un libro è come parlare a tavola in presenza della servitù. Il bello è che, per poterlo affermare, egli deve ricorrere a un libro: tanto è rischiosa e plurima la natura della scrittura. Al punto che perfino chi si affeziona alla segregazione e
non sopporta altra aria che non sia quella del carcere; chi si fa obliquo voyeur di se stesso, con uno specchio in mano e uno dietro le spalle; nemmeno costui resiste alla tentazione di raccontare al mondo il suo narciso piacere e le mille soddisfazioni dell’ammutinamento.
Dopotutto, nel racconto di Nathaniel Hawthorne, Wakefield, alla fine, ritorna a casa.
Questo vuol dire che si scrive per popolare il deserto; per non essere più soli nella voluttà di essere soli; per distrarsi dalla tentazione del niente o almeno procrastinarla. A somiglianza della giovane principessa delle Mille e una notte, ognuno parla oggi per rinviare
l’esecuzione, per corrompere il carnefice. Morte e scrittura, quindi: ecco una connessione cruciale. Ha ragione Blanchot: si scrive per non morire. In questa vita, s’intende. Non in
vista delle comiche immortalità sognate da romantici e classici, alle quali nessuno più crede. Più avanti si va, nei secoli, più la polvere cresce sui gonfi scaffali, nessuno si salverà. Andiamo, è sicuro, verso una civiltà di nuovo orale, fra diecimila anni la biblioteca
d’Alessandria sarà stata bruciata innumerevoli volte. Si dovrà per questo reprimere la ovvia comune volontà di durare? Riconosciamolo, si scrive specialmente per essere ricordati e per ricordare, per vincere dentro di sé l’amnesia, il buco grigio del tempo. Affidarsi alla pagina, come alle bende e ai balsami la mummia d’un faraone, non conosco altro modo che consenta il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere. “Riessere, è questo il problema”, ho
sussurrato una volta, parodiando umilmente Shakespeare. E so ch’è una fuga in prigione, una vittoria perduta, ma anche l’unica strada, benché precaria e illusa, che ci scampi un istante dalla maledizione di Eraclito.
Si scrive per ricordare, ripeto. Ma si scrive anche per dimenticare, per rendere inoffensivo il dolore, biodegradarlo, come si fa coi veleni della chimica. Può essere una vernice, la scrittura, che ci anodizzi i sentimenti e li protegga dalle salsedini della vita. Qui un altro nodo emerge: medicina e scrittura. Che può tradursi in modi più spicci: scrittura come analgesico, come palliativo e placebo, quando non si tenga conto del margine di frode pietosa che sempre inerisce a una consolazione del genere. Ma non si scrive anche per essere felici? Leopardi lo attesta: “Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo che io abbia passato in vita mia e nel quale mi contenterei di durare finché vivo. Passar le giornate senza accorgermene e parermi le ore cortissime e meravigliarmi sovente io medesimo di tanta felicità di passione.” E sentiamo Pavese: “Quando scrivo qualcosa e do dentro, sono sereno, equilibrato, felice.”
Andiamo avanti: si scrive per far testamento. Testamento e testimonianza hanno radice comune, si sa. Scrivere vale dunque a redigere una deposizione a futura memoria, come quelle che si lasciano ai giudici, perché ripetano, dopo la morte, la nostra parola.
“Pronunziare ogni parola come se fosse l’ultima” ha detto Canetti, ed è una bella e solenne definizione della scrittura. Si scrive per giocare, perché no?, la parola è anche un giocattolo, il più serio, il più fatuo, il più caritatevole dei giocattoli adulti.
Si scrive per scongiurare, per evocare. Ho imparato, ragazzo, da un’affabile maga che graffire su un muro quattro nomi di diavoli, Furcu, Rifurci, Lurcu, Cataturcu, bastava a farli apparire. Una sera ci provai.


E si scrive per battezzare le cose, chi le nomina le possiede. Esiste solo chi ha un nome, l’innominato è nessuno. Nelle teogonie primitive il dio è soltanto se ha un nome. Si scrive per surrogare la vita, per viverne un’altra. L’arte, in quel caso, diventa, se il bisticcio è lecito, un arto, un arto artificiale, la pròtesi d’una vita non vissuta. Forse è così che l’arte è
cominciata, quando un cavernicolo in un angolo buio, dove sarebbe occorsa una torcia per scoprire le sue pitture, dipinse uccisa la bestia che bramava di uccidere, esercitando quindi una pratica magica, ma soddisfacendo altresì una tensione, come avviene a chi sogna e chi
s’innamora. Sì, perché si scrive anche per persuadere e amorosamente sedurre. Chi scrive intreccia con chi legge una guerra d’amore, una complicità invidiosa, una clandestina intesa di peccatori; a volte associandosi con lui per delinquere, a volte odiandolo come un rivale. Si scrive per profetizzare: non accade spesso, ma accade, che su una lavagna cieca, mentre re Baldassarre è alla frutta, una mano intrecci misteriose parole. Si scrive per rendere verosimile la realtà. Non so degli altri, ma io sono stato sempre colpito dalla inverosimiglianza della vita, m’è parso sempre che da un momento all’altro qualcuno dovesse dirmi: “Basta così, non è vero niente.” Allora io penso che si debba scrivere
per cercare di crederci, a questo impossibile e riuscito colpo di dadi; che si debba, se l’universo è una metastasi folle, un po’ fingere di mimarla, un po’ cercarvi un ordine che ci inganni e ci salvi. Questo mi pare il compito civico e umanitario dello scrittore. Farsi copista e insieme legislatore del caos, guardiano della legge e insieme turbatore della quiete, un ladro del fuoco che porti fra gli uomini il segreto della cenere, un confessore degli infelici, una spia sacra, un dio disceso a morire per tutti. Ciò non vuol dire che scrivere è uguale a pregare?”

Che dire?

 

Grazie Don Gesualdo.

Questo è il tempo di Dioniso?

Il mio nuovo blog inizia, e non poteva essere altrimenti, con una domanda provocatoria: quello che stiamo vivendo, è il tempo di Dioniso? il tempo delle forze vitali e liberatorie della natura umana?

Apparentemente, a giudicare dal numero infinito di allusioni dionisiache di cui è zeppa la nostra società, verrebbe da rispondere affermativamente. Tutto sembra essere divenuto un’allusione costante al piacere, al liberarsi dagli inutili tabù dovuti ai costumi, ai blocchi mentali, ai condizianamenti sociali e collettivi. Tutto sembra poter essere alla portata dell’individuo disposto a godere dei piaceri radicali della vita e di un’esistenza volta al godimento e all’ebbrezza. La pubblicità, le canzoni, le trasmissioni televisive, le mode, i modelli sociali, sembrano essere tutti ricavati dal culto dell’antico Dio Greco. Il Dionisiaco compare dappertutto e tutti si dichiarano a parole seguici del Dio nato due volte. Uno spettro infinito di seguaci che va dai nottambuli consumatori di polverine magiche al fine di trovare godimento con qualche essere umano non meglio precisato, agli incalliti frequentatori di rave party che considerano i loro riti di sballo veri e propri baccanali.

Ma questa è solo l’apparenza del fenomeno e tutti noi che viviamo in questo tempo privo di sostanza lo sappiamo benissimo. Se Dio è morto, comme a dire qualche tempo fa il buon Nietzsche, allora Dioniso, il nato due volte. è morto davvero due volte. Morto e stramorto verrebbe da dire e tutto quello che oggi si richiama a Dioniso non solo è assolutamente privo di corrispondenza con il culto dionisiaco, ma ne è in aperto contrasto. Questo tempo non ha assolutamente niente di dionisiaco, semplicemente perché è un’epoca di algoritmi, di calcoli, di natura seconda, ammaestrata, dominata, ridotta a video virali, a schermi di telefonini. E non basta fuggire dal tanto disprezzato “sistema” per diveniri satiri e menadi dediti e dedite al culto di Dioniso. Sarebbe troppo facile!

Ma non sarebbe troppo bello, perché noi poveri mortali del tempo presente non siamo nemmeno in grado di immaginare il tempo in cui il culto dionisiaco rappresentava davvero qualcosa per una qualsivoglia collettività di esseri umani.

Parlare di Dioniso oggi, è come parlare delle calende greche, ovvero di quel tempo destinato a mai realizzarsi. Anche per questo, non a caso, “calende greche” era proprio l’altro titolo che avrei voluto dare a questo mio blog letterario. Si trattava di un omaggio a Gesualdo Bufalino autore del libro “Calende Greche” e autore da me amatissimo anche per motivi biografici. “Calende Greche” era il primo libro di Bufalino che ebbi modo di leggere ormai tanti or sono e rimane dunque un libro al quale sono sentalmente legato a filo doppio.

Se alla fine Dioniso ha avuto la meglio è solo perché le radici del mito, che sono le radici della nostra cultura, sono più forti e poderose di qualsiasi amore e devozione personale e razionale. Ma questo Don Gesualdo lo avrebbe capito benissimo, lui che da buon siciliano comprendeva come nessun altro la potenza evocatica del mito, lui che ha fatto della Sicilia una terra di miti in tutta la sua opera.

Questo non è il tempo di Dioniso e forse non c’è mai stato un tempo di Dioniso. Questo non ci esula e non ci impedisce di sperare e di lottare perché un giorno il suo tempo possa infine giungere su questa terra e in questa umanità martoriata da troppo tempo. Questo non ci impedisce di sognare che le calende greche possano un giorno avverarsi e che possa davvero arrivare il tempo in cui la cultura possa infine essere regina di tutte le cose.

Dipende da noi, solo da noi.

Marco Incardona