UN PASSO DI “DOMANDE AL SILENZIO” SCELTO DA ELISA C.

Una mia amica, Elisa Cingolani, ha appena pubblicato sulla sua pagina facebook un passo tratto dal mio romanzo “Domande al silenzio”, la Nuova Rosa, 2011.

La ringrazio enormemente per questo e anche per la pagina scelta e la pubblico volentieri sul blog. Quando si scrive, come talvolta capita a me, è sempre bello e stimolante scoprire quali siano le pagine e i passi che colpiscono l’attenzione del lettore. E’ come se, in questi casi, si aprisse uno spazio nuovo, e lo scritto dell’autore assumesse una valenza diversa, autonoma e divenisse un incrocio in cui si incontrano “davvero” due universi umani. Dialogare improvvisamente attraverso uno scritto è sempre qualcosa di magico e inaspettato e forse, anche per questo, bellissimo.

Anche per questo, grazie Elisa.

domande-al-silenzio

“Vengo dal mondo incantato dell’assoluzione reciproca, del mutuo soccorso fatto di alienazione e bugie d’ogni specie, dell’impavido specchiarsi davanti ad un’immagine fatta di fuligine.
Vengo da un mondo che si inventa i Messia e poi li mette in croce, che si inventa la fine del mondo per farne un evento come un altro.
Vengo da un mondo che produce delle t-shirts con scritto “100% Me” , “Kiss Me” , “Know Me”.
Vengo da un mondo in cui si picchia un ragazzo con handicap solo per farsi una risata, grassa, inquinata, maledetta.
Vengo da un mondo in cui l’uomo più ricco del paese dice di essere un presidente operaio, in cui un operaio vuole avere la Mercedes, in cui il calciatore vorrebbe parlare di filosofia, in cui l’opinionista televisivo vorrebbe dissertare come il più abile dei Protagora, in cui la soubrette vorrebbe imporci l’antica ontologia del sesso ritto, la metafisica dell’azzeccagarbugli.
Vengo da un mondo in cui Auden diceva “il solo compito della poesia è quello di salvare la complessità della lingua dal suo impoverimento, perché quando una lingua si impoverisce può essere possibile il fascismo”, e ci sono quadri comunali che vorrebbero sciorinare il proprio talento tra un “know how” ed un “Brend management”.
Vengo da un mondo in cui in certi luoghi non hai diritto di parola, se il tuo curriculum vitae non è farcito di articoli, articoletti, articolino, compendi, compendietti, pubblicazioni, ine, ette, anche accie, basta far numero, non importa che siano tutte variazioni sul tema, che un concetto è uno e messo in croce diventi tesi e poi articolo, e poi articoletto e poi altra tesi e poi libro e così via, basta fare sostanza, massa critica, poi le decisioni funzionali le lasciamo alla logica dei pots de vin.
Vengo da un mondo in cui una fellatio fatta bene dà più prestigio di una dissertazione su Suàrez, in cui un culo mostrato bene, conta più di saper fare l’amore, in cui un bicipite ben costruito conta più di saper smontare una lavatrice.
Vengo da un mondo in cui ci si lava la coscienza mandando un sms per adottare un bambino a distanza e poi si mandando di continuo emissari a descrivere il mondo dei balocchi, di ricchezze indescrivibili, così che i clandestini a nero prendano anche 800€, pur di sopravvivere.
Vengo da un mondo in cui capire la logica e le regole della Talpa è diventato più importante di capire della logica della critica della ragion pura.
Vengo da un mondo in cui se uno muore tentando di salvare qualcuno in mare diventa un eroe su tutti i giornali almeno per una settimana, ma se muore stritolato da un macchinario non a norma, in fondo era lavoro e questo accade.
Vengo da un mondo in cui è normale fare fatica per andare in palestra, in ti è normale massacrarsi a lavoro, allo stadio, negli studi televisivi, ma non è possibile fare uno sforzo per pensare.
Vengo da un mondo in cui è normale, doveroso, necessario, storico, fare due giorni di fila per vedere la salma del Papa e fargli una fotografia con il telefonino, ma non è importante conoscere il Vangelo, leggere il Cantico dei Cantici, in cui è più importante che Padre Pio abbia le stigmate, piuttosto che la religione abbia un senso.
Vengo da un mondo in cui sembra più importante costruire l’uomo e la donna cibernetici, piuttosto che interrogarsi sulle caratteristiche della natura umana.
Vengo da un mondo in cui è più importante presenziare a tutte le feste del Millionaire, piuttosto che fermarsi a contemplare che due arcobaleni possono ancora apparire in cielo.
Vengo da un mondo…”

Da “Domande al silenzio”

tirreno

NON E’ ADESSO

download-1

 

Ripubblico inoltre la recensione del bellissmo libro di Daniele Semeraro “Nà jé m'” che scrissi per il Blog dei Miagolatori.

images

Non è adesso, na’ jé m’, di Daniele Semeraro, vincitore del premio letterario La Giara, indetto dalla Rai, è un libro difficile, complesso e di grande impatto emotivo. Complessità e difficoltà che non si devono certo ad uno stile ostico o prolisso, perché anzi l’autore, profondendo uno sforzo di grande pulizia, innanzitutto mentale, ci consegna un testo asciutto, dallo stile preciso, secco e di grande incisività. Quello che ne risulta è un romanzo fruibile e scorrevole nella lettura, un romanzo in cui impressioni e descrizioni sono sempre espresse con nettezza e grande capacità espressiva. Ma non inganni una tale scrittura, visto che, come un devastante fiume carsico, durante tutta lettura si avverte l’immenso sforzo emotivo dell’autore nel trattare una vicenda autobiografica così tragica per lui e la sua famiglia. E si capisce bene come lo stile asciutto, quasi distaccato, abbia rappresentato dunque l’unico modo per poter affrontare, dopo vent’anni, l’immane tragedia della scomparsa del padre. Semeraro è perfettamente consapevole di questo, e si profonde in uno sforzo di tensione stilistica immane, per poter infine raccontare questa storia drammatica, strappandola, con la forza della disperazione, al potere devastante del silenzio. E di questo si tratta infatti, riportare in vita il padre, nella memoria, nella memoria collettiva della sua famiglia, della sua gente, squarciando il silenzio che era calato non solo nei ricordi, ma nella vita di tutti loro. Un silenzio forse necessario, un silenzio utile per andare avanti, per affrontare il mistero tanto incomprensibile come la morte del padre, suicidatosi quando l’autore era ancora adolescente. Ma un silenzio che l’autore riesce infine a vincere, come ultimo grande atto di amore verso il padre, consegnandoci un romanzo di grande spessore etico. Semeraro decide di non raccontarci il deserto seguito alla tragedia, ma di entrare nel vivo della memoria di un adolescente costretto ad affrontare una prova emotiva durissima. Il romanzo racconta infatti i tre anni intercorsi tra la prima scomparsa del padre nel 1991, primo segno indubitabile del suo grande disagio interiore e la tragedia del suo suicidio nel 1994. Il teatro è quello di Martina Franca, di una Puglia rurale in cui tradizione e modernità convivono in maniera contrastante, quasi scioccante, come in tante altre parti del nostro Meridione. Ed in questo quella di Semeraro e di suo padre, è la storia emblematica di una famiglia meridionale. Famiglia di estrazione contadina, famiglia numerosa, famiglia di bracciantato, che vive appieno il passaggio dell’Italia da paese essenzialmente contadino a grande potenza industriale mondiale. Anche il padre e la famiglia di Semeraro sono protagonisti di questo passaggio, visto che quasi tutta la famiglia emigra a Torino e conosce gli anni del miracolo economico in uno dei suoi principali fulcri. Ma le radici chiamano, la terra, la terra da riscattare riportano il padre di Semeraro al rientro in Puglia, in una Puglia anch’essa irrimediabilmente cambiata, una Puglia che non è più solo quella della tradizione e del ricordo, ma una Puglia che è il luogo della rivincita, della costruzione di una famiglia strappata alla povertà della memoria, alla povertà che aveva costretto il padre e molti dei suoi fratelli a fuggire a Torino, in cerca di un futuro migliore. La famiglia simbolo di amore, porto sicuro per guarire e rigenerarsi, ma anche responsabilità enorme, per un uomo che decide di farsene carico, non solo economico. E forse nella mente del padre dell’autore, qualcosa si inceppa proprio in questo, ed il devastante tarlo del dubbio e dell’inadeguatezza, finiscono per avere poco a poco la meglio, su un uomo che era sempre stato forte e caparbio. E Semeraro non può che assistere impotente a questa lenta metamorfosi del padre, e farlo con gli occhi di un adolescente che, forse, non riesce ancora a cogliere la complessità dell’esistenza, ma che comunque sente la vitalità e la passione della vita pulsare dentro, come un grande magma pronto a dirompere. Invece il padre, la figura di riferimento, di forza, la figura con cui confrontarsi in questa lotta che è la vita, si spegne lentamente, rinchiuso in un mutismo devastante, prigioniero di una corazza che nessuno riesce a penetrare. Sono anni difficili per l’autore, più di quello che la memoria, sempre vigile nel rimuovere quello che non è sostenibile, possa ora raccontare. Per questo l’autore sceglie quasi uno stile distaccato e, benché le vicende siano sempre narrate in prima persona, parlando del padre sembra quasi che non sia il figlio a scrivere, ma l’io narrante, lo scrittore che è oggi Semeraro. Tragedia nella tragedia, sdoppiamento nello sdoppiamento, ma forse l’unico modo possibile per affrontare l’inaffrontabile. La quasi totale assenza, nel testo, di dialoghi tra padre e figlio, ci restituiscono appieno il peso interiore ed il dramma emotivo del figlio che scrive del padre dopo venti lunghi anni di silenzio. Forse una forma di difesa necessaria di fronte ad un vaso di Pandora dagli esiti incalcolabili.
Semeraro poi, con altrettanta scaltrezza narrativa, quasi a voler ancor di più relativizzare razionalmente il dramma vissuto allora, inserisce mirabilmente il microdramma della sua famiglia, nel macrodramma collettivo attraversato dall’Italia in quegli anni terribili, ed ancora poco conosciuti e studiati in realtà. Le stragi di Mafia, le bombe nelle città, Tangentopoli, la crisi economica, sfilano nel romanzo come un trasfondo silenzioso, quasi insignificante agli del Semeraro adolescente di allora, incapace di inserire quei fatti in un reale nesso di relazione, tra la crisi profonda di del suo Paese e la tragedia che la sua famiglia stava vivendo. Eppure tutto scorre e quei fatti, tanto collettivi quanto familiari, sembrano ora lontani e forse incomprensibili nel loro nucleo. L’autore sa che questo “non è adesso”, che ha infine provato ad affrontare, non è infine superato, una volta per tutte, sa bene che, un “non è adesso”, rimarrà sempre nel fondo della mente. Perché ci sono drammi che non si possono mai affrontare fino in fondo. E forse, anche e soprattutto per questo, dobbiamo essergli grati per questo suo romanzo, dal grande impatto umano, che ha voluto lasciarci come grande atto di amore verso il padre e verso la sua famiglia.

MARCO INCARDONA

images-1

 

DANIELE SEMERARO: Un passo tratto da “Nà jé m'” (Non è adesso)

download (1).jpg

Conosco personalmente lo scrittore Daniele Semeraro e ho dunque la fortuna non solo di poterne apprezzare le indubbie qualità letterarie e di poter parlare con lui direttamente di letteratura, ma di poterne apprezzare anche e soprattutto le qualità umane.

Quello che più mi colpisce di Daniele è la capacità rara  e preziosa di far convivere una calma e una pacatezza di maniere con l’intransigenza nel difendere i propri di vista e la propria visione delle cose, senza però mai andare oltre righe, senza mai imporsi, tentando di prevaricare sugli altri.

Sono davvero lieto di poter dunque pubblicare una pagina tratta dal suo bellissimo romanzo “Nà jé m'” del 2014, vincitore del Premio La Giara indetto dalla RAI:

Questa pagina è stata direttamente scelta da Daniele Semeraro per i lettori del Blog:

images-1

 

“La storia si ripeteva in un dejà vu dalle tinte fosche. Una pellicola in bianco e nero appena rischiarata dalla luna che illuminava pallida vicoli stretti, chianche lucide, androni e scale, balconi, lastrici, antenne della tv. Terrazzi alti, lenzuola stese. Ogni parapetto un brivido freddo. Ogni latrato un cattivo presagio.

Lo cercammo ovunque nel centro storico, non solo nello juso dove teneva gli attrezzi da lavoro.

Stradone, Portici, ‘a chiazze d’a’ cipodde[1].

Ragazzini infrattati tra i vicoli bui a scambiarsi assaggi di piacere tra rivoli di piscio fermentato al sole. Mani nervose su corpi acerbi.

Andammo alla Lama, a San Domenico, e mere ‘a Porta strazzete[2] per parlare con Peppino, u’ meste d’ascie[3], mentre chiudeva la bottega vicina a quella di mio padre, ma mi disse che non l’aveva visto quel giorno, che non ci parlava da una settimana. Stessa cosa la signora Ancona.

Trattenne il fiatone quando rispose al telefono. Appena rientrata, non aveva nemmeno disfatto le valige.

Si raccomandò di farle sapere e ci rimettemmo a cercare.

Quando tornò ci eravamo quasi arresi.

Entrò in cucina come un cane bastonato, sguardo basso, braccia lungo i fianchi. Il nonno sul punto di andare dai Carabinieri, si lasciò cadere sfinito sulla prima sedia libera.

Mia madre piangeva, ma la sua sola presenza la sollevò comunque dall’angoscia e gli buttò le braccia al collo.

Era vestito come la mattina, jeans puliti e camicia a righe. Aveva sudato.

Claudio, serio, andò vicino a loro.

Mia madre gli accarezzava la faccia che la barba di due giorni gli rendeva più nera.

Mi avvicinai anch’io e lo abbracciai appena.

Non sapevo, non potevo, fare di più.

Un bacio sulla guancia che graffiava e mi misi da parte. Le mani in mano a ripassarmi le ferite.

Lasciai a Claudio le dimostrazioni d’affetto.

 

Se l’hai fatto una volta, lo farai ancora.

La banale convinzione mi ronzava nella testa da due anni. La preghiera del mattino, appena aprivo gli occhi. La derubricavo, sforzandomi, a pura possibilità.

Tornò invece a rinvigorirsi quella notte, riappropriandosi della connotazione iniziale di “cosa sicura”.

Ce lo lasciammo alle spalle il terrore di quella sera. Ché in fondo le cose erano andate per il meglio. Mio padre era tornato, e sulle proprie gambe. Non aveva ingerito nulla e non si era fatto del male. Aveva semplicemente vagato per un po’ in giro con la macchina. Dove, di preciso, questo non seppe dirlo. Ostuni, Taranto, Ceglie,  farfugliò. Ma negli occhi si portava la follia di quelle ore.

Pensai con orrore al mare calmo e scintillante come una lastra di alluminio che si increspava accogliendo il suo volo spiccato dall’alto del Ponte Punta Penna. E alla discesa dell’Orimini, la nuova strada tutta curve, ma veloce, che da Martina scendeva a Taranto serpeggiando tra due muri di roccia carsica maledettamente inclini ad accogliere la morte.

O, ancora, e più intensamente, a quella corsa da Ostuni a Martina che mille volte, lo so, tornando dal mare, aveva immaginato. Il lungo rettilineo della provinciale, appena dopo il bivio per Pascarosa. Il piede che spinge sull’acceleratore, gli occhi sgranati, il sudore sulla fronte. Una volta mi aveva detto, così come faceva lui che sembrava che scherzasse, che gli sarebbe piaciuto pestare il piede sull’acceleratore in quel punto. Un bel rettilineo per sentire la velocità come un tempo con la Giulia, <<e c’ n’g’ pegghiene i fren’…[4]>>. Non terminò la frase.

Ma questo mi bastò a immaginarlo quella sera, e tante altre volte da lì in avanti, percorrendo la stessa strada verso il curvone col terrapieno. Lui al volante, il suo proponimento. Il manto stradale liscio e regolare, il cuore che pompa, la rabbia che sale con la velocità. Novanta, cento, centoquaranta-centosessanta.  Il motore che ruggisce come un animale che muore mentre i lecci e i carrubi a ridosso dei muri a secco diventano ombre dai contorni irregolari che sfumano veloci come spettri maledetti. E poi la carreggiata che prende a restringersi, i muretti laterali ad alzarsi fino a raggiungere i tre, quattro metri. L’ombra che sale, lo stomaco sobbalza, le mani strette a tenere il volante. Le nocche cianotiche, senza sentire dolore. L’ultimo sforzo, niente di più facile. In fondo alla strada quel semaforo inutile che  regola il flusso per il sottopassaggio. La curva a gomito sotto l’acquedotto e gli occhi fissi sull’imponente terrapieno contenuto dal possente muro a secco. Un gigante di quattro metri. Sul capo, una corona di spine di fichi d’India, che assisteranno al violento impatto. Dopo il boato non resterà nulla, solo il dubbio che si sia trattato semplicemente di un incidente, un guasto alla macchina, un colpo di sonno.

La Giulia che prima correva verso il futuro, la strada del mare invece verso la morte, l’unico futuro che cercava, che corteggiava.

    Quella sera, ne sono certo, lo percorse a folle il sottopassaggio, aggrappato al volante e coi nervi tesi. La faccia tirata, la testa ovattata. C’era andato al rettilineo, glielo potevo leggere in viso, c’era andato per non tornare, ma poi come altre volte si era ingannato di farcela, di farcela ancora. O semplicemente aveva avuto paura, gli era mancato il coraggio.

Promise che quella storia di non tornare a casa non si sarebbe mai più ripetuta. Mai più.

E noi facemmo finta di credergli.”

 

[1]     la piazza della cipolla

[2]     verso la Porta di San Pietro (detta Porta stracciata)

[3]     il falegname

[4]     e se non prendono i freni…

 

images

————————————————————————–

nel_segno_di_cab_54db3b310820d_150x230

 

 

Per chi volesse conoscere meglio la sua opera e la sua scrittura consiglio la visita del suo Blog:

http://nelsegnodicaballero.wixsite.com/danielesemeraro

A seguito alcuni dati biografici per conoscere meglio Daniele Semeraro, tratti proprio dal suo Blog:

copertina

 

“Daniele Semeraro

nasce a Locorotondo nel Maggio del 1977. Vive a Martina Franca fino al 2012, quando si trasferisce a Firenze dove oggi risiede.
Chitarrista autodidatta, grande appassionato di musica e letteratura, si affaccia al mondo della scrittura da cantautore. Compone brani musicali per sé e per altri e nel 2008 si avvicina alla scrittura in prosa.

“Scrivere polvere”, pubblicato nel 2011 dall’editore salentino Lupo, è il suo romanzo d’esordio. Accolto dalla critica come uno dei migliori esordi dell’anno, Scrivere polvere appare tra le nomination del Premio PubliaLibre come miglior romanzo di autore pugliese uscito in Italia nello stesso anno. 

A fine 2014 pubblica ancora con Lupo editore il romanzo Nel segno di caballero che si avvale di una nota di presentazione a cura di Shel Shapiro, storico leader del complesso dei Rokes.

Intanto, sempre nel 2014, partecipa alla terza edizione del Premio letterario La Giara indetto da Rai Eri.

L’inedito, “Nà jé m’/Non è adesso, si aggiudica la Giara di bronzo. La premiazione condotta da Giancarlo Magalli viene trasmessa a Luglio in diretta su Rai Due ed il romanzo, con cui torna a narrare la sua Puglia, va in stampa con Rai Eri nell’aprile 2015.”

 download-2