DARIO FO ANCHE DA LASSÙ CONTINUA A SALVARCI TU

La scomparsa di Dario Fo lascia senza dubbio un vuoto incolmabile nel panorama spesso arido delle lettere italiane. Oggi sono tutti ad osannarlo e saltare sul carro dello strombazzo sarebbe come far torto alla memoria di questo grandissimo della nostra letteratura. Lo faranno ancora per un po’ i sicofanti di regime, coloro che, quando era in vita, lo hanno ostacolato e offeso in tutte le maniere.

Ma si sa, in questo Paese le cose vanno in questo modo.

Troppo spesso mi è capitato di leggere su facebook e in altri media che il suo Nobel fu immeritato della storia. Mi auguro che questi benpensanti non siano oggi sugli stessi media a cantare le lodi dell’opera del grande uomo di teatro che fu Dario Fo.

Ci conto poco però e, per questo, allo starnazzare mediatico sguaiato e blasfemo, preferisco di gran lunga il silenzio.

Ripubblico allo stesso tempo con piacere un articolo che scrissi mesi fa all’indomani del suo novantesimo compleanno

DARIO FO SALVACI TU

Qualche giorno fa, in occasione del suo novantesimo compleanno, Dario Fo, ultimo Premio Nobel della Letteratura Italiano nel 1997, è stato intervistato a spron battuto da tutti i media e ricercato da tutti i giornalisti italioti, per usare un’espressione del suo amico Carmelo Bene.

Nessuna sorpresa, le cose funzionano così e non da ora. Quello che importava non era certo il sottolineare il pensiero controcorrente di questo grande personaggio delle nostre Lettere, quanto piuttosto non correre il rischio di rimanere indietro, di non riportare una notizia che altri avrebbero riportato, di non fare un’intervista che altri avrebbero fatto. Cose dell’altro mondo, verrebbe da dire, cose invece di questo, ci tocca purtroppo constatare.

Il problema del’informazione è eminentemente un problema relazionale. Per quanto i poteri che stanno dietro i media facciano di tutto per imporci una visione delle cose, esiste comunque il margine di disponibilità del siddetto “pubblico” a recepire le notizie, ad accettarle, al limite al rielaborarle criticamente. Questo almeno nel Paese di Alice in Wonderland, non certo nell’Italia di oggi, ovvero nel Paese dell’Alice in chains, per citare un gruppetto rock-grangettino che andava per la maggiore un paio di decenni or sono.

Ma del resto i contorni drammatici del problema li ha definiti chiaramente lo stesso Dario Fo, in una delle tante interviste alle quali è stato obbligato e senza dubbio tediato, nello specifico quella a La Stampa. Il giornalista domanda se l’Italia fosse un Paese migliore agli esordi della sua carriera, rispetto a quello che si trova ora a interfacciare. Dario Fo, probabilmente al culmine dello sdegno per tante e tali stupide domande, risponde :

«Allora, senza dubbio. L’abbiamo peggiorata moltissimo. Intanto allora poteva capitare quel che è capitato a me, che oggi sarebbe impossibile. E poi c’era un pubblico che voleva la satira, che non si accontentava delle verità ufficiali, che dettava i temi. Era lui che ci chiedeva di parlare della morte di Pinelli o delle stragi di Stato. Con Morte accidentale di un anarchico portavamo nei palazzetti dello sport diecimila persone. L’Italia adesso è addormentata». 

L’Italia di allora era senza dubbia più ingenua, probabilmente più analfabeta di quella di oggi, ma era un Paese nel quale si poteva fare ironia, del quale si poteva ironizzare, si pensi agli immortali capolavori cinematografici della Commedia all’Italiana, che con il tempo sono divenute marcescenti riproduzioni della Commedia all’italiota.

L’Italia di oggi è invece un Paese addormentato, dice Dario Fo e credo lo dica con molto amore verso l’Italia e poca decisione concettuale. In maniera cauta e mansueta, come conviene a chi deve essere giustamente solo celebrato. Ma lui, appunto, è un Maestro può dire ormai quello che vuole e come vuole e per di più ha ormai novant’anni, non tocca più a lui di lottare e dunque di essere spietato con le parole per poter aprire un varco nel complesso delle zucche vuote degli italioti, abitanti di un Paese che non esiste e che non ha senso di esistere se non nell’ammmissione di essere un Paese depredatore e rapinatore di una parte sull’altra. Ma questa è un’altra storia, anzi no, questa è la Storia dell’Italia predatrice del Sud, e anche, dunque, la causa profonda dello stato di profondo squallore in cui versa oggi. Un Paese che non riconosce la propria Storia, che non ammette di essere un Paese razzista intimamente e colonizzatore in tutte le sue politiche, non potrà che finire prima o poi nello scantinato della Storia (ci auguriamo il prima possibile) ed avere un popolaccio di quarta serie e addormentato. Basta guardarli ormai gli italiani per capire quanto siano deficienti. Prima bisognava ascoltarli, sentirli profondere l’estetica del pigliatutto, della arraffi chi può, del volemose tutti bbene e poi damosela tutti nder culo e via discorrendo. I loro occhi almeno brillavano, avevano la famelica ambizione dei baùscia e dei palazzinari, lo scintillare di accattoni e scugnizzi pasoliniani. I loro occhi erano quelli immortalati da Alberto Sordi e dalla sua tremenda ironia.

Ora più nemmeno quella, sono zombie che camminano, merdacce (cito lui il grande Fantozzi) che camminano. Sonnambuli, come scrisse Hermann Broch in un suo celebre romanzo, che infestano l’aria e soprattutto lo spazio con l’immondizia inaccettabile della loro disumanità.

Qualcuno li ha mai visto negli occhi questi giovani? Credo proprio di no, poiché gli zombie sono tutti intenti a perdersi nel magico schermo dell’i-phone, prefigurazione perfetta delle polverine magiche, e non hanno più tempo di guardarsi veramente negli occhi.

Questi giovani sono dei morti dell’anima, non hanno niente nel cuore e si vede nei loro occhi. Ormai è impossibile ricordarsi, anche solo lontanamente, come scintillavano gli occhi dei nostri ragazzi di borgata, quando l’Italia era il Paese di cui parlava Dario Fo. Prendiamo allora un caso più facile da notare.

Prendete i giovani emigrati cresciuti in Italia, che hanno fatto gli studi tra italiani, ascoltando le minchiate italiche. Prendete un ragazzo nero ad esempio, uno senegalese, o del Gambia o di dove volete voi. Guardatelo in un’immagine proveniente dall’Africa povera e alla fame e guardatelo vestito come voi, atteggiandosi come voi, parlando come voi. I suoi occhi sono spenti, non brillano più, sono morti al suono della merda capitalista.

L’Italia è un Paese addormentato, ma il suo corollario è che è un Paese drogato e non sole di droghe, ma di oggetti, di apparenze, di parole vuote, di maniere stantie e prive di senso.

I suoi giovani tornano ad emigrare non certo perché sono la sua parte migliore, ma solo quella più egoista ed energica nello scappare dalla nave prima che affondi. In fondo sono i peggiori, poiché davanti al bivio della storia che li obbliga a guardare in faccia la realtà e a lottare, scappano come conigli in cerca del nido felice in cui riprodursi come tante pecore capitaliste. Non cercano certo di capire l’essenza di Goethe o di Lamartine,nelle loro fughe a giro per il mondo, ma solo di curare l’egoismo delle loro carriere. Sono il frutto peggiore di un Paese che non vede più il male che fa a se stesso celebrando queste merdacce.

I giovani Italiani che dovrebbero lottare, semplicemente perché così li obbliga la situazione storica del nostro Paese, scelgono di fuggire e di drogarsi e di addormentarsi, tutto pur di non fare i rivoluzionari. Sono degli inutili struzzi che meriterebbero solo di essere spazzati via da un’orda di famelici ipotetici migranti, che ahimé non arrivano mai, esattamente come i Tartari alla Fortezza Bastiani.

Italia italiota e putrida, Paese che ormai ha perso anche il ricordo lontano della sua millenaria missione e centralità culturale. Del resto questo lo aveva capito benissimo il genio letterario di Fiodor Dostevskij al momento della nascita del Regno.

Il conte di Cavour ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato: per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione …di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese — la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese —un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e, soprattutto, soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour! “

Che ne è il risultato caro Fiodor?

Un Paese insignificante e addormentato, culturalmente e umanamente colonizzato e mediocre. Scriveva un altro grande e ingenuo amante dell’Italia degli italioti, Pasolini:

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Ovviamente non si offendano i popoli arabi, balcanici e antichi che ci sono ben superiori e che lo sono certo di più della merda chiamata oggi Europa. Oggi gli italioti lo idolatrano, Pasolini, lui che nei suoi film obbligava i figli italioti a mangiare la merda che del resto mangiano ogni giorno, probabilmente vomitata dai loro cervelli in putrefazione.

Da aggiungere altro?

Gli italioti addormentati non accettano più l’ironia, celebrano chi dice loro di mangiare la merda, figurarsi se possono capire il senso dialettico dell’invettiva,

Caro Dario Fo, magari per i tuoi meravigliosi novant’anni fatti e facci e regalo. Torna in scena, diventa mago e con la tua bacchetta magica trasforma di nuovo il Paese ai tempi della tua giovinezza, quando gli italiani erano sbruffoni, arroganti, maldestri, ignoranti, prepotenti, scaltri, disonesti, truffatori, ladri, mascalzoni e chi più ne ha più ne metta, ma mai delle merdacce addormentate.

Marco Incardona

 

Il RITRATTO DEL POETA KUKOLNIK DI BRIULLOV

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Forse a molti lettori sarà capitato in vita o accadrà in vita di essere folgorati dalla visione di un quadro, come una folgore che, d’improvviso, squarcia il cielo e lo cambia per sempre.

Per quanto questo possa sembrare assurdo, questo mi è accaduto vedendo il ritratto del Poeta russo Nesto Kukolnik ad opera del grande maestro Briullov.

Il poeta e drammaturgo russo non fu forse un autore di importanza capitale per le lettere russe ed europee, ma il ritratto che ne ha fatto Briullov nel 1836 ce lo immortala per sempre e ce lo restituisce ricco di un fascino quasi magnetico.

Il dipinto si trova oggi a Mosca, nella famosa Galleria Tret’jakov e tutti possono ammirarlo e invito a farlo.

Per quel che mi riguarda io ebbi l’immensa fortuna di guardarlo per la prima volta a Parigi nell’ottobre del 2010, in una mostra sull’Ottocento Russo organizzata nella splendida cornice del Musée de la vie Romantique. Museo ubicato nel cuore del quartiere de “la Nouvelle Athènes” , dove vissero nell’Ottocento moltissimi esponenti del Romanticismo francese e quartiere che sarà immortalato da bellissime pagine di Balzac e di Zola e dai quadri degli impressionisti.

Ricordo ancora la mattina in cui decisi di visitare il museo. Motivi personali mi stavano lentamente portando a prendere la triste decisione di lasciare Parigi. Per questo avevo cominciato a camminare instancabilmente per la città, come a carpirne le ultime immagini, gli ultimi ricordi di una vita che non sarebbe mai più stata in quei paraggi. Non tornerò mai più a vedere Parigi come quando ci vivevo, questo lo sapevo benissimo allora.

Entrando nel Museo nel 2010, non sapevo che nel 2014 avrei rivisto il ritratto di Kukolnik nel 2014 proprio a Mosca, non sapevo che sarei stato in Russia.

Questo prima di entrare, perché quando vidi il quadro in uno dei saloni del Museo, rimasi folgorato per istanti eterni che ora non saprei quantificare. Come ipnotizzato, non riuscivo a staccarmi da quello sguardo che mi riempiva il cuore e che allo stesso tempo mi sconquassava l’anima. Un istante, una folgore, un graffio indelebile.

Fu difficile staccarmi da quel quadro quel giorno. Ma non fu un addio, fu solo un arrivederci. E io so che tornerò presto a Mosca per riguardarlo, per farmi ipnotizzare.

Sempre nel 2014, pochi giorni dopo feci visita alla casa di Dostoevsky a San Pietroburgo. Un’altra emozione immensa per me. Allora non sapevo e non ricordavo che anche Dostoevsky era stato folgorato dallo stesso ritratto del Poeta Kukolnik.

Ecco un passo noto de “i Demoni” nel quale ne parla:

“Farò un’osservazione fra parentesi anche su questo ritratto del poeta Kukolnik: questo quadretto era capitato nelle mani di Varvara Petrovna per la prima volta quando si trovava, ancora bambina, in un nobile collegio a Mosca. Si era subito innamorata del ritratto, secondo il costume di tutte le fanciulle dei collegi che si innamorano di tutto ciò che capita, e anche dei loro insegnanti, soprattutto quelli di calligrafia e di disegno. Ma la cosa più curiosa non è il carattere di una fanciulla, ma il fatto che perfino a cinquant’anni Varvara Petrovna conservasse quel quadretto nel numero dei suoi ricordi intimi più cari, così che anche per Stepan Trofimoviè aveva ideato forse un abbigliamento alquanto simile a quello rappresentato nel quadretto. Ma anche queste, naturalmente, sono sciocchezze”

A presto Kukolnik.

Marco Incardona

LA PEDDI NOVA

Pubblico la poesia la “la Peddi nova” del grande poeta Siciliano Ignazio Buttitta, poesia dedicata a Pier Paolo Pasolini

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Certu era bellu scriviri
comu un briacu
a la taverna a biviri,
chi guarda la buttigghia
e ci parra,
e ridi a lu bicchieri
chi svacanta
e torna a ghinchiri arreri.

Scriviri mprinatu d’amuri:
la gravidanza, li dogghi,
lu partu,
lu tempu esattu
pi fari un figghiu
e nasciri na puisia.

Certu era bellu;
ma ora sugnu spirtusatu,
lazzariatu di dintra,
e scrivu
cu lu duluri chi mi torci
comu un sarmentu a lu furnu;
com’unu assicutatu
di li spirdi
muzzicatu di li lapi.

La storia di st’anni fucusi
ha zappatu cu l’ugna
dintra di mia,
e restu scantatu a taliari
l’omini tutti
mpinnuliati a un filu,
a un distinu sulu,
dintra na varca di pagghia c’affunna.

Sentu ca la me vuci
chi li chiama di luntanu
avi limmiti e cunfini d’amuri
e mòri nni l’aria.

Voggh’essiri un cocciu di rina
nni la rina di la praja;
un pisci nni la riti cu l’àutri
mprinati a sfunnari
la gaggia chi li chiuj.

Mi vigghiu svacantari, scurciari,
fammi la peddi nova
comu li scursuna.

Ignazio Buttitta da “La peddi nova” – Sellerio ed.

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