GESUALDO BUFALINO QUANTO CI MANCHI

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Parlare di Bufalino è per me, senza dubbio, un atto di devozione. La devozione, come è noto, va intesa, innanzitutto, come una movenza prettamente sentimentale. Come un qualsiasi amore, si ha un bel parlare delle motivazioni razionali e delle contro-motivazioni irrazionali, a prevalere sono, sempre e comunque i sentimenti.
Non saprei dire se, questa devozione, si tramuti in un’influenza diretta sulla mia scrittura, sulle scelte delle mie tematiche e del mio stile. Forse neanche importa, quello che importa è per me il dialogo intimo, come un magma lavico, con questo sorprendente, quasi commovente scrittore.
Certamente sono anche i luoghi ad avere tanta influenza in tal senso. Bufalino era nato e vissuto a Comiso ed aveva insegnato per tanti anni nella vicina Vittoria, città che mi ha dato i natali. Anche se lontano da sempre, il legame con la mia terra d’origine è sempre forte, quasi viscerale.
Bufalino è figlio ed interprete di questa terra, che appare, a molti, lontana, ancestrale, quasi irreale. Egli ne è stato un osservatore attento ed acuto; silenziosamente, per lunghi anni, l’ha scrutata e l’ha rivissuta attraverso il proprio travaglio interiore. Grazie alle sue parole, i luoghi che rivedo con gli occhi di bambino, acquisiscono un’aurea quasi mitica. Non più luoghi in cui si svolge una quotidianità, simile a quella di tutti gli angoli del pianeta, ma luoghi poetici, votati ad una lettura metaforica, quasi mistica della realtà.
Bufalino, come pochi altri scrittori, ha saputo guardare alla sua terra come ad un luogo dell’anima (archeologica verrebbe dire secondo l’accezione di Giorgio Agamben), come ad un luogo in cui il passato immemoriale dell’uomo, rivive nei minimi gesti, nei piccoli dettagli di paesaggio. Penetrandone il mistero profondo ed atavico, egli ne ha saputo raccontare magistralmente il dramma, scavandolo e trapiantandolo nelle viscere profonde della propria esistenza terrena. Leggendo le sue pagine, si avverte, come un profondo e perpetuo scandalo. La vita, la vita che è luce, che è la bellezza del paesaggio siciliano, che è la sinuosità delle forme del suo barocco, è anche continua e incessante prefigurazione della morte.
Morte non solo individuale, tragedia che già da sola basterebbe, ma morte collettiva, morte di civiltà. Come nessun altro, Bufalino ha avvertito l’alito della morte individuale e collettiva, e ne ha raccontato il mistero, facendolo affiorare, tra i luoghi che hanno fatto da contorno alle sue vicende umane.
Le trasformazioni apportate dalla civiltà moderna, non lo hanno interessato per le contraddizioni e le lotte che esse hanno generato, ma per il senso muto di tragedia che hanno inesorabilmente comportato, tragedia della fine di un mondo, di un modo antichissimo di vivere.
Una tragedia silenziosa, che non ha trovato Dei ed interpreti pronti a raccontarla.
In un’intervista del 1985, quando era ormai scrittore famoso, egli disse che il tempo, la memoria, la morte erano i soli argomenti degni di interesse per uno scrittore. E aveva profondamente ragione.
Da qui ne consegue il senso di continuo scandalo, di stupore metafisico, leggendo le pagine dello scrittore di Comiso. Il suo linguaggio barocco, che spesso mi ha fatto pensare ad un altro scrittore insulare, allo scrittore cubano, José Lezama Lima, non va per questo inteso, come un mero piacere per la scrittura iperbolica, per la ridondanza descrittiva e lessicale.
Come in un gioco distorto di specchi e di vortici inestricabili, attraverso il suo linguaggio ricco e ricercato, egli ha saputo dipanare un mondo di metafore, capaci di raccontarci l’immobile e insondabile mistero della vita. Invece di perdersi come tante onde sugli scogli, il suo linguaggio barocco ci dischiude un mondo intatto, quasi classico, in cui l’effimero del gesto e delle parole, prefigura il dramma dell’assenza, come un ultimo profusione festosa di gioia e di espressività, prima della muta fine delle cose.
Nessuno come lui ha saputo cogliere nel sentimento tragico della vita, per dirla alla Unamuno, lo scandalo irrisolto della morte. Nessuna preparazione psicologica, nessuna filosofia dell’esistenza, potranno mai risolvere il dramma della morte come assenza di vita.
I siciliani, nel loro naturale riferirsi alla finitezza delle cose, alla loro transitorietà, rievocano a se stessi questo scandalo, quasi a voler demonizzarlo, ad attutirne il colpo. E come non avvertire un tale scandalo, vivendo in una terra invasa di luce, di vita, circondati da una natura quasi idilliaca, eppure anche aspra, scarna, improvvisamente lunare. Ma come non avvertirlo, vivendo anche in una terra in cui la terra trema e distrugge, in cui un vulcano manifesta quotidianamente la forza distruttrice della natura.
Di questa condizione, di questa contraddizione irrisolvibile, Bufalino ha sapute sempre farne metafora viva e tragica, declinandola nella propria condizione esistenziale, non come aspetto marginale, ma come centro emblematico.
Egli ha reso poetica la tragedia, perché questo era l’unico modo, per lui sostenibile, di esorcizzare il dramma della vita. Con le parole, egli ha cercato di incantare la vita, quasi a voler neutralizzare per un istante la morte. Ma si tratta di una consapevole illusione, ed attraverso i vuoti di silenzio, che egli ha saputo magistralmente evocare nelle sue pagine, Bufalino è riuscito a non cedere mai del tutto, alla consolazione lusinghiera della parola.
Davanti ad una sfida ed un senso della tragedia tanto forti, la sua esistenza appare ai miei occhi quasi come eroica. Come uno dei paladini protagonisti delle vicende immortalati dai pupi siciliani, egli ha saputo combattere con ostinazione, come un eroe silente, il cui destino è più forte di qualsiasi contingenza.
La sua opera, quest’opera che oggi ci appare come un lascito monumentale, sarebbe potuta benissimo rimanere inedita e sconosciuta per sempre. Come in tanti altri casi celebri, pensiamo a Kafka e a Pessoa, a Cavafis ed a tanti altri, lo scrittore di Comiso ha condotto in solitudine la sua sfida all’esistenza. Una casuale pubblicazione di un album di antiche foto, lo fece, d’improvviso, conoscere al vasto pubblico. Bastò un semplice saggio introduttivo, come a Pessoa era bastata la pubblicazione del suo Mensagem. Ma tutto sarebbe potuto essere silenzio, Don Gesualdo non avrebbe fatto certamente niente per mutare il suo destino di esiliato silenzioso, di “ammutinato contro la vita”.
A trattenerlo dalla facile ricerca di consenso, dalla soddisfazione di vedersi riconoscere un ruolo come intellettuale, è stato senza dubbio il rispetto quasi sacrale che egli ha sempre manifestato verso la scrittura e la cultura. Marginalizzato nel suo amato lembo di Sicilia, lontano dagli squallori e dalle ripicche di certi circoli letterari, facili all’onanismo intellettuale ed alla mutua autocelebrazione, egli ha mantenuto costante, fino quasi alla autocensura preventiva, il senso del compito dello scrittore. Il suo stile tanto ricercato e sottile, frutto di un’estenuante ricerca espressiva, era il frutto di un rispetto sacrale verso la scrittura.
Basti pensare che, quest’uomo, non potendosi procurare un’edizione in francese dei Fleurs du mal di Baudelaire, durante gli anni del Fascismo e della Guerra, abbia finito per decidersi a ritradurli in francese, per capire facilmente quanto potesse essere forte in lui, il rispetto della letteratura.
Un rispetto sacrale dunque, quasi ossessivo, che ha finito per paralizzane gli slanci verso il mondo esterno, per soffocare il desiderio, legittimo, di riconoscimento di un pubblico di lettori. Un riconoscimento ed un apprezzamento che rischiavano di diventare, per lui, come l’esercito invasore del Deserto dei Tartari. Solo che, invece di desistere, invece di abbandonarsi alla scrittura di facile presa, egli ha, invece, continuato nella sua ricerca, fedele a se stesso ed alla parola, incurante della prigione di luce e di silenzio in cui si era volontariamente esiliato.
Mai come nel suo caso bisogna essere felici, che la sua opera sia stata pubblicata in vita. Anche se tardivo, il dovuto riconoscimento dei suoi meriti di scrittore, deve averlo, anche se parzialmente, ripagato dei suoi sforzi e della sua tragedia interiore. Chi lo ha conosciuto, racconta di un uomo orgoglioso dell’amicizia e della stima di Leonardo Sciascia, come un bambino che sacralizza la figura ed il ruolo del padre davanti agli altri bambini. Una stima che l’altro scrittore siciliano, già famoso da tempo, ricambiava appieno.
Come ad un sogno remoto a cui aveva quasi smesso di pensare, la notorietà letteraria gli ha infine permesso di rendere la sua voce più sicura, come sprigionata dalle inevitabili sacche di dubbio, che la condizione di autoesilio comporta.
Ma quegli anni di silenzio, quegli anni da esule della vita, devono sempre essergli sembrati spesso, come l’unico vero rifugio sicuro, un rifugio ormai perduto per sempre, un rifugio trasformatosi, simbolicamente, in quello che prima doveva essere stato per lui il pensiero della gloria letteraria. Un sogno, un fantasma, un segno della condizione effimera e transitoria dell’essere umano nel mondo e delle sue scelte.
Ormai non era più solo il professore, l’uomo che amava passeggiare e giocare a carte con i sui compaesani, egli era ormai famoso e conosciuto. Quell’uomo schivo e riservato, stimato ma forse mai capito del tutto, era d’improvviso diventato una delle principali vetrine di un territorio che non era quasi mai alla ribalta . Il solco con il mondo per certi versi si approfondiva, anche se non era più un solco silenzioso, come quando i suoi compaesani potevano vedere quello strano professore intento a scrivere appunti su un taccuino. Strano animale certamente, ma vicino, contiguo, in prossimità di vita e di esperienza. Divenuto ormai famoso, in molti devono aver pensato alle mille volte in cui, seduto accanto a loro, in un bar di Comiso, di Vittoria o di qualche altro luogo, avevano visto Don Gesualdo intento a scrivere. A scrivere magari:

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LA SOSTA
Con un gelato davanti
e la morte dentro la mente
seduto a un bar di Piazza Marina,
guardo due mosche amarsi sulla mia mano,
come colpi di batticuore
odo martelli battere sulle rotaie,
mi chiedo perché vivo,
che grido o che caduta m’aspetta dietro l’angolo,
rammento un altro sole rovente come questo
sulla mia testa rasa di soldato,
un’altra attesa, un’altra fuga, un’altra tana.
Ora pago, mi alzo, questo giorno è sbagliato,
questo e gli altri di prima, sono un uomo infelice.

Camminare nelle strade che furono il palcoscenico esistenziale di questo grande scrittore, rappresenta per me uno stimolo fortissimo. Nessun esilio, nessuna desolata e appartata esistenza, mi sembreranno mai tanto desolate ed appartate quanto lo fu la sua. Invece di scoraggiarmi, il pensiero di Bufalino rinvigorisce continuamente il mio desiderio di conoscere, di leggere, di scrivere. Rileggendo qualunque delle sue pagine, è possibile rievocare continuamente la sua vita esemplare, il coraggio delle sue scelte etiche.
Il suo linguaggio, lungi dal sembrarmi ampolloso, appare invece come un estremo baluardo in difesa del pensiero, della libertà di esprimere la condizione umana nel suo cuore metaforico. La sua lingua incantata si sottrae perennemente al consumo, all’edonismo estetizzante, alle grossolane facilonerie. Perché scrivere fu per lui sempre e comunque “una guerriglia contro la solitudine”.

Tuo devoto Marco Incardona