TRE POESIE DI VERONICA FALCO

“Ammodorcas e altre poesie”, raccolta poetica di Veronica Falco che ho avuto il piacere di curare per le edizioni Ensemble di Roma ed appena uscito, rappresenta un’occasione unica per conoscere una voce poetica, particolare, dalla poetica originale e altamente evocativa.

Questa la mia introduzione alla raccolta che pubblico per intero:

“Leggendo e rileggendo questo libro, per certi versi inclassificabile, di Veronica Falco non ho potuto fare a meno di ripensare ed ascoltare la bellissima composizione di Richard Strauss Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione). L’opera era stata composta, su versi di Alexander Ritter, per commemorare la scomparsa dell’amico del compositore Friedrich Rosch.

Ma il parallelismo con l’opera di Strauss non deriva dalla commemorazione di un amico o un’amica scomparsa, quanto piuttosto dalla simbologia non dichiarata che si emana da quest’opera musicale.

Basterebbe soffermarsi su un punto: la poesia. Cosa spinge a scrivere poesie se non il desiderio di tradurre in parole sensazioni, emozioni e immagini vissute e scomparse nella realtà e presenti solo nella memoria. Scrivere versi significa in questo senso far rivivere il già vissuto, significa rivisitarlo, riproporlo, riattraversarlo con uno sguardo obliquo, consapevole della definitiva perdita. Nessun momento può mai ritornare lo stesso, nessuna sensazione potrà mai essere rivissuta con la stessa intensità. Eppure tutto quello che è vissuto ci costituisce per quello che siamo, si sedimenta come traccia indelebile, torna a galla come eco lontana, come richiamo assordante, a volte come angosciante logorio.

Se esiste una linea di demarcazione che addita i poeti come folli è proprio questa. Il senso comune, anche correttamente, nella consapevolezza che, concentrarsi sull’irrimediabilmente perso, non provochi altro che uno stato di smarrimento perenne, quasi mortale, rifugge la malinconia della memoria, evita accanitamente la rivisitazione tragica del perduto. A che serve guardarsi continuamente indietro? Bisogna andare avanti, desiderare ciò che ancora non è avvenuto, quel che di bello potrebbe accadere. Del progresso, lo sappiamo, abbiamo fatto una religione, e infatti ci aggrappiamo all’ultimo ritrovato tecnologico come una specie di dispensatore ultimo del senso della vita. Possedere il manufatto più moderno, significa trovarsi nella frontiera della vita, significa cavalcare l’onda lunga di ciò che avanza, ovvero dell’unica cosa che meriti di essere vissuta e celebrata. La malinconia è uno stato che colpisce coloro che non sono capaci di stare al passo con i tempi, che addirittura si mettono in testa di pensarlo il tempo, di riapparecchiarlo nella tavola imbandita della memoria per farne un lauto banchetto. Cosa da folli e da poeti appunto.

Marcel Proust si prefisse, ad un certo momento della sua vita, lui che la vita l’aveva vissuta al passo con i tempi, di rivisitare in scrittura le temps perdu e trasformarlo in modo altamente simbolico in temps retrouvé. E non a caso, finita questa sua immane opera di riattraversamento, egli disse alla sua governante fedele e comprensiva Céleste Albaret, che da quel momento il senso della sua vita era venuto meno e che sarebbe potuto morire in pace con se stesso.

Ed è appunto questo che spaventa, che allontana moli, per non dire quasi tutti, dalla ricerca della memoria, dalla rivisitazione delle emozioni, dalla poesia che metafora dell’esistere. Chi riattraversa il tempo, il suo tempo, il suo esserci stato, e quindi, in fondo, l’esserci sempre stato, ma non vogliamo scomodare Nietzsche in questa occasione, prefigura quello che è già scritto nell’irreversibilità del tempo perduto, ovvero che la fine nostra e delle cose è iscritta dal primo momento in cui mettiamo piede al mondo. Ed è una fine che, paradossalmente, non appartiene al passato, ma alla certezza del futuro. Riportare in vita le emozioni vissute, farne canto, parola significa sfidare frontalmente la fine delle cose che dal passato traccia l’unica via certa del futuro. La malinconia della memoria esorcizza l’inaccettabile responso dell’esistere e lo trasfigura in un campo di mediazione fatto di parole e di segni. Riattraversare il tempo della memoria, significa in questo senso trasfigurarsi in un tempo destinato a sopravviverci. Un anelito questo che serve a smussare il dramma della fine, dell’impossibilità di trattenere il tempo e il suo scorrere. Significa inoltre trascendere il tempo che scorre e gerarchizzarlo in un tempo capace di determinare quel che conta, quel che meritava davvero di essere vissuto. La malinconia del poeta non nasce dunque da un’incapacità di vivere il presente e desiderare di vivere appieno il futuro, quanto piuttosto il contrario, dalla capacità di viverlo appieno e di vederne in faccia il dramma. Mutare in parole il dramma della consapevolezza, la certezza della fine, trasfigurarlo in un tempo capace di dare un senso alle cose fuori dallo loro scorrere consueto, dal loro accumularsi, è quello che rende un poeta grande, capace di trasfigurare la fine, la propria fine, in tempo di trascendenza. Ed è per questo che le emozioni descritte dai grandi poeti e dalle grandi poetesse ci appaiono al contempo tanto prossime eppure tanto lontane. Esse sono universalizzate perché trasfigurate, attraverso un logorante lavoro di scavo sulla parola, in un tempo altro rispetto a quello che lo aveva prodotte. Emozioni che parlano del senso dell’emozione nella vita e dunque anche della nostra e dunque anche dello svanire delle emozioni che vorremmo trattenere nella nostra esistenza.

Abbandono il microcosmo per inoltrarmi leggera sul ponte,/ là sotto sono i campi di segale e la donna dell’Egitto;” con queste parole suggestive e definitive che Veronica Falco ci introduce al senso della suo poema Ammodorcas e anche alle altre poesie che concludono il libro. Scrivere poesie, trasporre i sentimenti e il vissuto in un piano più ampio, capace di trascendere il piano concreto è il compito che questo libro prova e, a mio avviso, riesce appieno a raggiungere. Abbandonare il microcosmo, intento apertamente dichiarato dalla poetessa, nell’epoca dell’individualismo sfrenato, significa dunque avventurarsi su un territorio pressoché sconosciuto e pieno di incognite. Inoltre per la Falco l’approccio a questa, che non fatico a definire una vera e propria cosmogonia poetica, avviene, la qual cosa aggiunge difficoltà alle difficoltà stesse dell’impresa, non attraverso l’utilizzo consapevole e già mille volte utilizzato dai poeti, dell’armamentario stantio di un certo simbolismo, quanto piuttosto al ricorso complessivo di una trasposizione allegorica complessiva della realtà vissuta. Allegorizzare il reale vissuto in una vera e propria cosmogonia poetica è compito difficilissimo, che restituisce, senza il bisogno di troppe lodi da parte di scrive, tutta la statura di stile e la complessità della poetica della poetessa.

Veronica Falco, con un linguaggio e uno stile poetico che deve molto ad una tradizione poetica, come quella americana, che va dal Paterson di Carlos Williams Carlos alle migliori poesie di un John Ashbery, è riuscita però a far suo quel gusto per l’allegoria, tutto barocco, e tutto meridionale oserei dire, il cui risultato è una scrittura dallo stile definito e di grande originalità. Basterebbe questo a fare di questo libro un grande libro.

In un panorama come quello italiano nel quale la piccola conventicola dei lirici e oggi quella più in ascesa degli slamers tende inevitabilmente ad omologare il proprio linguaggio poetico in una serie di formule ripetute e retoriche, che hanno però il favore di chi, appartenente alla conventicola e accoliti, vi si riconosce immediatamente e ne trae il piacere dell’appartenenza al gruppo, Veronica Falco ha scelto consapevolmente un’altra strada, un’altra scrittura.

Altra perché, pur non essendo la sola a trarre stimolo, anche imitativo, dal meglio della lirica americana e non solo, la poetessa è riuscita a farlo suo con un intento di poetica proprio, con un tentativo tutto mediterraneo di creare una cosmogonia allegorica del reale.

In maniera emblematica la poetessa ha scelto di chiudere il libro con i seguenti versi: “E alla fine qualcuno ieri notte/ ha sognato un grande dinosauro/ varcare tranquillo un cancello di ferro/ ed io ascolto questa storia come se fosse la ricerca/ del giorno/ del sogno primitivo/ perché chiedo ad ogni cosa di darmi la forza di avere ancora/ ossa/ e mi guardo così triste e pensierosa/ sfilare la maschera ogni sera/ e cercare di poter lottare per altre quattro.”

Sfilarsi la maschera in un mondo che di maschere sembra non volersene levare mai, ma crearne sempre di nuove, come in un quadro di Longhi, è questo il compito di sguardo che la poetessa ha voluto affidare al suo scrivere, al suo modo di attraversare la realtà con la parola. Sarebbe importante dunque leggere questo libro con la pazienza e l’attenzione che merita, ma so che in un mondo martoriato dal tambureggiare di un’incessante accelerazione sociale, come direbbe Hartmut Rosa, questo può sembrare una richiesta quasi folle, da poeti verrebbe da dire.

Se dunque in molti lasceranno scorrere queste parole come lasciano scorrere le emozioni e le immagini della propria esistenza, sono al contempo sicuro che in molti coglieranno l’importanza e dirompente vitalità di questa poetessa che si affaccia al panorama editoriale con un’opera già matura, con uno stile personale delineato e con un’originalità di poetica fuori discussione.

Vengono alla mente le parole del grande scrittore argentino Ernesto Sábato: “Solo chi è capace di incarnare l’utopia sarà pronto per il combattimento decisivo, quello per recuperare la parte di umanità che abbiamo perduto”.

L’utopia della poesia, se ancora una può averne e se ancora un ruolo può darsi, è proprio quella di allargare i confini del linguaggio, mettendo in crisi il suo comune uso strumentale, al fine di preparare il terreno a quel combattimento decisivo per il recupero dell’umanità perduta, quella interiore e quella esteriore, quella rimossa come ci avrebbe detto T. W. Adorno.

Ed è proprio il linguaggio di Veronica Falco, la sua capacità di trasporre la sua esperienza concreta su un piano altro, laddove i personaggi si trasfigurano in esistenze quasi essenziali, ora ataviche e immemori, ora trascendenti e irreali, a strutturare i contorni in espansione di questa possibile, e certamente auspicabile, utopia poetica. La poetessa non consegna facili approdi al lettore, non lo acquieta in evocazioni evidenti o sentimentalismi consueti. Sceglie da subito di farci partire dal cammino più erto perché, come si sa, chi bene inizia è a metà dell’opera. Leggerla significa entrare nel suo mondo, nel suo labirinto fatto di parole, nel suo groviglio di emozioni e di immagini quasi impossibili da dipanare. Leggerla significa crearsi di entrata una propria personalissima cosmogonia capace di criptare le immagini proposte e riproporle sul piano trasfigurato della propria esistenza. Leggerla significa per certi versi riscriversi, riprodursi su un altro piano, trascinarsi in una dimensione diversa dal piano agevole della lettura. Veronica Falco è una poetessa ambiziosa perché si rivolge esclusivamente a lettori ambiziosi, lettori che si auspicano ad ogni libro di scoprire cose nuove, di farsi cambiare integralmente fino a quasi rinascere. Sa bene di non essere una poetessa facile e per tutti, esattamente come sa bene che non tutti cercano curiosamente l’utopia capace di risvegliare il rimosso dell’umanità.

Da dove sono uscita? Da quale porta scalino finestra sono caduta in grembo/ a ciò che forse non è mai stato? / Come la luna penzolo ma al contrario/ adesso posso inoltrarmi di nuovo nelle lande della mia mente / perché non so più chi è il fantasma, ed è bastato molto poco/ per farmi sentire inavvertibile.”

E se per molti apparirà inavvertibile la forza dirompente di questo libro, per altri sarà impossibile da ora in poi fare a meno di seguire incuriositi questo fantasma poetico che ci passa accanto e ci suggerisce una realtà di osservare con lo sguardo che “come la la luna” penzola al contrario. Come in una danza magica e sciamanica Veronica Falco trasforma le persone e gli oggetti in una dinamica di senso inconsueta, quasi vorticosa:“nell’armadio bianco il caos fasullo/ dell’agnello piangente/ Pedante senza sosta- oh lui,/ “poveri a Basilea”/ con orecchie di liuto/ protese contro la donna dell’arpa/ È proprio così che si diventa/ locomotive/ e a volte anche fiori blu”

Verrebbe la voglia di camminare per mano con lei, magari proprio a Basilea, e farci suggerire dal suo sguardo il trapuntarsi, ora minaccioso, ora aurorale di una realtà che a mala pena siamo capaci di intravedere. C’è un dirompente bisogno di poeti in questo tempo per certi versi impoetico e proprio per questo, sfortunatamente, di veri poeti ve ne sono pochi. Incontrali è però l’unica vera ambizione che merita di essere perseguita. E questo perché attraversare il tempo significa vivere per un poeta e una poetessa come la Falco non può vivere la vita senza trasporla nella magia avvolgente del proprio paroliere alchemico. Come talvolta con le streghe (o quello che esse simboleggiano) che non si amano, si seguono, che non si adorano, ma alle quali ci si consegna per esserne divorati. Prendere o lasciare, perché il gioco irradiato dai suoi versi è sempre al rialzo, una specie di gara ad eliminazione nella quale arrivare in fondo finisce per avere senso solo se si è capace di non pensare al fatto che bisogna arrivare in fondo. Il contrario della vita, dove si fanno solo le cose chi si possono realizzare, si amano solo le persone che ti amano, e si concorre solo ai concorsi che si possono vincere. Questo libro non è fatto per chi ama calcolare, il suo calcolo è proprio quello di far dimenticare il calcolo a chi finora ha sempre e solo amato calcolare.

Se avete paura, tornate pure alle vostre faccende consuete, ai vostri libri amati, alle parole che vi consolano, agli scrittori che vi dicono che ci sarebbe tanto bisogno di cultura in questo mondo e poi sono i primi a non scrivere mai niente che con la “cultura” abbia qualcosa a che vedere. Ma queste sono chiacchiere e se avete paura leggendo questa inaspettate poetessa, vi basterà pensare che ogni tempo ha la sua strega, il suo demone, il suo folle poeta da mettere all’angolo in fretta e furia. “Quando ti dicevo che questo mondo non era per noi/ e tu per tutta la sera provavi a tagliare carote/ spostando dita su teche in legno curvo/ allora e proprio allora avremmo dovuto abbandonare/ la pietà, i suoi manti di cristallo/ e perderci nella bolla attraverso la vetrina”. Come vedete Veronica Falco sa bene quale sia la sua posizione in questa realtà che non riconosce il piano di realtà dei poeti. Ma i poeti sono sempre oltre la realtà del piano della loro realtà poetica. Seguirli sarebbe un dovere, ma raggiungerli sarebbe comunque impossibile. Impossibile come far tornare per un attimo in vita quei momenti che segnano e solcano l’esistenza di ognuno di noi. Il mio invito è dunque di leggere questo libro quando sarà venuto davvero dentro il momento per leggerlo davvero, per attraversarlo da parte a parte senza timore. Forse per comprenderlo davvero, anche se forse per i giovani è più difficile, bisogna arrivare a quel momento che il poeta spagno Jaime Gil de Biedma ha magnificato esplicitato nella sua poesia No volveré a ser joven:

Que la vida iba en serio
uno lo empieza a comprender más tarde
–como todos los jóvenes, yo vine
a llevarme la vida por delante.

Dejar huella quería
y marcharme entre aplausos
–envejecer, morir, eran tan solo
las dimensiones del teatro.

Pero ha pasado el tiempo
y la verdad desagradable asoma:
envejecer, morir,
es el único argumento de la obra.

E se è vero che invecchiare e morire, quello che in fondo si diceva all’inizio di questa prefazione, sono il solo argomento vero dell’opera come ci insegna il poeta di Barcellona, è anche vero che sapersi trasfigurare in parole che trascendano il piano tragico dell’esistenza, è il solo modo per lasciare una traccia che trasporti il piano dell’esistere individuale, verso il piano più universale dell’esistere in quanto tale. Eppure, come ci dice mirabilmente la nostra Veronica Falco: Non è ancora tempo di aspettare.

Ed ecco tre poesie di Veronica Falco:

Non sei Miller

Non sei Miller

e io non sono i vicoli di Parigi

e le foreste sono pastelli

ma solo se ci pensiamo troppo su

non sei Miller

e te lo dico sul serio

io non sono la Statua della Libertà

né un viaggio in Siberia

né una benda nera sugli occhi

non sei Miller

e io non sono i capelli rosa

della ragazza all’angolo della strada

la pioggia di settembre

né il nome indiano del nostro figlio mai nato

non sei Miller

ed io non sono una madre assonnata

né il canto delle sirene

né il mare che ora ti pare così noioso

che ora ti pare così reale

non sei Miller

ed io non sono ogni cosa che ti può salvare

io non sono il quadro storto da guardare

con ammirazione

non sono la poesia sul Ramadan scritta in treno

né la luce quando non si spegne del tutto

sono solo la rondine

sono solo la macchia bianca e nera

libera sullo sfondo cinerino

sono solo quello che non t’è mai servito

sono solo quello che mi serve

sono solo quello che sono sempre stata

sono solo il suono dei miei otto passi in avanti

e in avanti, e in avanti.

Animale totem

Ti ricordi di quella sera in cui

ti ho detto “Sono il tuo animale totem”?

Non credo che tu ti ricordi

perché l’ho appena pensato:

proprio adesso sono in ginocchio davanti a te

e ti sto porgendo tre pietre

ti ricordi di quando una sola lacrima

ha rotto la mia faccia in quattro pezzi?

perché gli animali totem variano

e a seconda della tua ispirazione

prima o poi io svanirò

ti ricordi di quanto potevo essere felice

se vedevo la tua ombra strappare il muro

proprio al centro, per poi camminare in punta di piedi

lungo il soffitto di legno

aggrappata alla luce della mia lampada?

tu eri testaccesa di fiammifero vibrante davanti a me

io ero la finestra, la cera, la penna senza inchiostro

e cercavo di capire che bestia volessi che interpretassi

sbirciando tra i miei tarocchi il tuo avvenire incerto

ti ricordi di quando abbiamo interpretato “L’amore ai tempi del colera”

2020? Oh, non è ancora successo e già è un fondo di bottiglia,

io e te galleggiamo tra i vetri rotti e i fiori luminescenti

come due vaschette di plastica nel Pacifico

e ci perdiamo tra gli altri detriti

o nella gola di un gabbiano

o nello stomaco di uno chef stellato

ma io non ricordo niente

vado a spasso tra le pozzanghere

e provo a mutare forma e mi vesto da volpe

ma non penso che tu te lo ricorderai,

perché non è mai successo, l’ho appena pensato:

proprio adesso sono in ginocchio davanti a te

e ti sto porgendo tre pietre

Noi non ci siamo incontrati mai

Noi non ci siamo incontrati mai

forse sfiorati, visti annegare da un lato all’altro

del nostro altare di pietre,

non ci siamo mai fermati

soltanto appesi

Il tuo corpo indossava pantaloni neri

le occhiaie scabre, i capelli raccolti

ma era solo lui a tenere sulla gruccia

del tuo scheletro la lana senile

Sul ciglio del nostro pozzo

non ci siamo incontrati mai

debilitati come due apparenze

io a piedi nudi, o forse eri tu

Ma adesso la strada è giunta al termine

e hai visto sul serio te stessa

un lenzuolo senza fronzoli svolazzante

disadorno, parallelo a te, ed hai capito

Noi non ci siamo incontrati proprio mai

né visti, prima di adesso

e non potevo credere che i miei occhi fossero

neri come i tuoi,

e avrei dovuto forse urlare al tuo orecchio

“sono il tuo fantasma!”

ma non avrei tirato fuori il tuo corpo grigio

dall’effettività

Noi non c’eravamo sognati mai

neanche abbandonati per un momento

al mondo delle idee

perché io, col corno di Invenzione sulla fronte

ho solo pensato a seguirti

e mai ho buttato la mia luce lampeggiante, festiva

davanti a te

Ma ti ho solo sorpresa,

triste e con la giacca agonizzante e logora

dei poeti e dei ciechi

e quando tu mi hai vista, ero solo il tuo riflesso

ed ero davanti a te come un dio maleducato

coi bordi gocciolanti la sera di Natale sulla tua finestra bianca

sfolgorante nel brusio dei tuoi incubi

eppure non ci siamo mai toccati o capiti,

non ci siamo mai incontrati.

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