INCUBO SOGNATO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

Domani sera alla Limonaia di Villa Strozzi bellissima serata di musica e poesia, incrocio di culture e visioni del mondo diverse ma sempre dialoganti…

Con molta probabilità, tra le varie cose, certamente le poesie di Affluenti e della nuova raccolta Nulla Caduco, leggerò anche questo brano, tratto dal romanzo che sto scrivendo, buona lettura:

Sono già diventato un ubriacone? Sono già la barzelletta dei miei amici che ridono vedendomi fare il pagliaccio nelle notti fiorentine? Penso proprio di no. O meglio, ancora di no.

Per ora tengo, mi trattengo. Ho una sola fortuna nella vita. So che farmene della lucidità, anzi mi è indispensabile.

Senza di essa non potrei scrivere e soprattutto non potrei pensare. Figurarsi leggere una qualsiasi pagina di Heidegger o Adorno da ubriachi. Nella vita si può provare di tutto, questo è certo, ma questo veramente no.

Alla mia già avanzata età, non posso definirmi un filosofo. Del resto non saprei neanche di cosa si tratti. A parte le fumose conferenze universitarie trincerate in un linguaggio specialistico, non riesco ad associare e declinare la parola filosofo nel mondo che mi circonda.

Dio è morto, ma la morte della filosofia è anche più fragorosa. Proprio non ce la fa a risorgere. Di altari almeno queste pecore umane ne erigono ancora molti e apparentemente dichiarano di credervi. Di filosofie nemmeno l’ombra. Amen.

Non sono un filosofo perché la filosofia è morta. Per questo, come un archeologo, provo a ricostituire con la mente e con il pensiero un mondo nel quale essa avesse ancora un senso. Mi aiuta ad evadere, mi parla di un’effrazione del possibile.

Fondamentalmente non credo alla centinaia di libri di filosofia che ho in casa. Edizioni critiche accurate, con decine di riferimenti bibliografici. Apparentemente si tratta di un avanzamento scientifico e qualitativo su ogni campo. Decine e decine di libri su Aristotele o Spinoza. Vite spese a scrivere articoli o saggi su di loro in biblioteche meravigliose di Harvard o di Cambridge.

Eppure non vedo niente di filosofico in loro. Anche il testo filosofico racchiuso in quei libri scientifici non mi appare più filosofico. Povero Spinoza se sapesse, penso. E sono convinto di avere ragione io.

La filosofia è soprattutto vita, la filosofia è la vitalità stessa, non la rappresentazione di un mondo che, attraverso la divisione alienante del lavoro, umilia le caratteristiche umane, limitandole a funzioni connaturate alla produzione per il mero consumo.

Libri che invece sanno di morte, che parlano dello sfruttamento barbaro dell’uomo sull’uomo. Eppure l’unico mezzo che mi rimane per evadere, per fuggire in alto, nel monastero benedettino della mia vita. Contraddizione tra le contraddizioni della mia vita, mi dico. Ma non mi parlino di filosofia e non si dichiarino filosofi.

Mi viene da ridere, un ubriacone filosofo. Ci mancava solo quello nella storia millenaria del pianeta. L’ultima pagliacciata del genere umano.

Eppure il pensiero mi è indispensabile, non riesco a fare altro. Ne ho bisogno come dell’aria che respiro. Fondamentalmente ho solo questo nella vita; al pensiero sono stato fedele e ligio come i Re Magi che seguivano la stella Cometa in cerca del Salvatore.

Perché bevo fino all’incoscienza allora? Non lo so. Per non sentire le stupidaggini altrui mi dico. Forse solo per cercare una zona dove io, per un attimo, non sono più io. Io che penso, divengo un certo io che smette di pensare, che vive nel guado, che scorge il baratro del nulla nella afasia umana e temporale.

Nell’incoscienza dello smemoramento, ascolto gli esseri umani più di quanto faccia quando sono totalmente sobrio.

In questa società di cui pensiamo di essere protagonisti, siamo in realtà delle comparse di quart’ordine, con poco talento e poche prospettive per il futuro.

Non parliamo, siamo parlati. Siamo ascoltati, spiati, sorvegliati più di quanto ci si illuda di ascoltare e di spiare gli altri.

Invertebrati che, in questo modo, si sono tolti dall’incombenza di riempirsi le ossa con le proprie pie illusioni di meretrici della vita. Ecco quello che siamo.

Bisogna dirsele queste cose, ma non possiamo in alcun modo fermarsi là. Grado zero certamente, traccia dell’invivibilità nauseabonda dell’esistenza. Proprio per questo impossibile stato di approdo e permanenza.

Sono un terrorista della vita e per questo mi vedo obbligato a pensare, ad aggredire l’esistenza con i colpi di martello del pensiero. Anche volendo, non potrei più fermarmi. L’intorno mi appare troppo infrequentabile per indurmi al compromesso.

Sia chiaro, dunque, per me la scrittura non è altro che un atto terroristico di grado secondo. Si tratta di una risposta momentanea all’angoscia provocata dalla consapevolezza dell’immenso spazio incavo nel quale si arena la mia convivenza con il mondo.

In fondo potrei benissimo non scrivere. Quando lo faccio, mi sento come un contrabbandiere che introduce merce proibita e lucra sulla stoltezza altrui. Scrivendo, mi trovo a violentare la realtà, strattonandola in una griglia valutativa tutta mia. Vi è qualcosa di grezzo nello scrivere, di indiscutibilmente violento.

Il pensiero mi distanzia, mi innalza verso luoghi di cui sono l’unico e solo frequentatore. Nel pensiero sono solo, sono mondo, sono salvezza del salvabile. Nella scrittura, invece, sono armato, sono in cerca di continui tornei cavallereschi.

Nella contesa non è possibile essere galanti, andare troppo sul sottile. Lo scontro conduce ai gesti repentini, alla violenza che precede la quiete desolata dello spazio devastato. Nella scrittura non esistono gli spazi frequentabili del pensiero. Il magma infrequentabile della vita diventa unico e melmoso protagonista. La scrittura è rancore contro il mondo e la sua merda. Quel che mi circonda diviene un amplificato esercito da abbattere con ogni mezzo. La stoltezza, un insulto che non posso tollerare in alcun modo. Il mio terrorismo è la scrittura. “

Marco Incardona

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